14 dicembre 2019

Fuori Dudamel, dentro Gerts

Un accidente di stagione ha tolto a Gustavo Dudamel la tournée con quella che, si diceva, sarebbe diventata la sua orchestra. Voci rientrate dopo la riconferma di Antonio Pappano, almeno fino al 2023, poi se ne riparlerà. Così sul podio dell'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dopo i concerti di Roma, ci è finito Mihhail Gerts, che oltre alla bacchetta si è preso il programma, pari pari, senza aggiungervi un pelo.



Gerts è un estone in ingresso in quell’età di mezzo in cui un direttore può diventare un nome di cartello o restare a vagabondare nella Nube di Oort dei tanti, lasciando la luce della gloria a personaggi più accreditati a prendersela. Ha trentacinque anni, una buona carriera nelle serie minori – semplificando la metafora, si può dire che Santa Cecilia per ora superi in prestigio le sue ospitate abituali – e delle buone ragioni tecniche da proporre. Certo, essendosi fatto carico a metà percorso di un programma già sgrezzato e lavorato da un altro, è impossibile definire con precisione suoi meriti e colpe nel concerto specifico, che pur rimane un concerto eccellente. Anche se è un concerto a due velocità, che stenta un po’ nella prima parte e decolla dopo l’intervallo.

In realtà si nota che tra direttore e orchestra non c'è grande conoscenza, non perché questa suoni male o imprecisa, tutt’altro, ma perché il gesto eccede sempre l'effetto, non c’è risposta proporzionata tra l’impeto del braccio e la musica prodotta, anzi, talvolta si ha l'impressione l’orchestra vada avanti più o meno per contro proprio, almeno nella prima parte. La reazione a ogni cenno c'è, ma attenuata, quasi i musicisti mantenessero un margine di cautela. Sia l’Overture dalla Semiramide che la Seconda di Schubert sono ben dipanate e pulite, ma un certo appiattimento della dinamica le rende meno beverine di quanto potrebbero essere. Se ne ascolta dunque una pregevole esecuzione, con archi sbarazzini e legni cesellati a puntino, ma tendente alla monocromia e rubare a Schubert la sua tenerezza infantile è un peccato grave.

Ben più centrato è il Brahms della Sinfonia n. 1 op. 68. Sarà che l’organico più ampio consente una maggiore varietà timbrica e dinamica, sarà che qui la pienezza degli impasti e la flessibilità del suono si acuiscono, sarà un maggiore feeling del direttore con il repertorio, fatto sta che il risultato è ineccepibile. Che sia il Brahms di Gerts o dell’Orchestra di Santa Cecilia è abbastanza difficile da stabilire, però è un gran bel Brahms. Il suono è lussureggiante e compatto, ben bilanciato, legni e ottoni sono splendidi e, tutto sommato, Gerts dà sempre l’impressione di essere nel pieno controllo della macchina. Rimane la sensazione di fondo che, di fronte a tanta perizia tecnica, qualche scelta più coraggiosa in termini di articolazione ci sarebbe stata bene. Inezie, soprattutto perché si comprendono le ragioni di certa prudenza: di prove per metterci del proprio Gerts ne ha avute ben poche. Al netto di tutto rimane la curiosità di riascoltarlo in un concerto “tutto suo” ed è già un bel segnale.

Alla fine è trionfo tra i più calorosi, con la Tik-Tak Polka di Strauss figlio in bis.

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