Ascoltando la Suite da Powder Her Face di Thomas Adès la memoria vola subito a certo Gershwin, senz’altro rinfrescato da nuove suggestioni, echi dal musical, da Previn, Cole Porter, qualche strizzata d’occhio alla musica francese e ai colossi del Novecento (un po’ di Berg, un po’ di Stravinskij, un po’ di Britten, un pizzico di Janacek), qualche nota di folk e molto, molto tango in stile Piazzolla. Il risultato è piacevole, ammiccante e furbetto, ma anche notevolissimo per quanto riguarda l’orchestrazione. Adès non avverte la necessità di concentrarsi sulla ricerca costi quel che costi, ma punta piuttosto verso una sintesi tra mondi già noti ed esplorati, rimasticati con mestiere e, perché no, anche con parecchia arte. Inoltre, pur trattandosi di una suite orchestrale tratta dall’opera, il risultato è omogeneo e discorsivo, benché gli otto movimenti che la compongono spazino tra linguaggi vari ed eterogenei.
Al di là della qualità del lavoro, è fuor di dubbio che la sua scrittura orchestrale e strumentale si presti a esaltare le virtù dei filarmonici di Berlino, il loro eclettismo, l’assoluta qualità delle prime parti e, forse ancor più, la capacità di respirare come un unico organismo, con una perfezione esecutiva che ha pochi paragoni. Tanto più se sul podio c’è Simon Rattle che, ormai legato stabilmente all’orchestra da un rapporto quindicennale, potrebbe guidare questa macchina a occhi chiusi. L’affiatamento con i professori d’orchestra è evidente: la quadratura musicale non teme sbavature, quella acustica (nella sala grande della Philharmonie) nemmeno, anzi, raggiunge vertici di tale equilibrio dell’amalgama da sembrare mixata al computer.
In un quadro di assoluta esattezza musicale, in Adès come in Mozart o Stravinskij, al maestro è sufficiente il minimo cenno per accendere la musica, modellare un timbro, aggiustare, suggerire, stringere o assestare un volume, ottenendo sempre il massimo risultato con il minimo sforzo. L’esito è prodigioso sul piano esecutivo ma anche per l’ampiezza del ventaglio timbrico, cui non è preclusa alcuna sfumatura, da certi graffi jazzistici fino alle sonorità più eteree, per la plasticità dell’agogica e, appunto, per la precisione millimetrica della concertazione.
Il salto da Adès al Mozart del Concerto per pianoforte n. 25 in do maggiore K. 503 è vertiginoso e la distanza viene ulteriormente esaltata dalla scelta di Rattle di ricorrere ad un’orchestra ridotta e quindi intrinsecamente distante dal crogiolo di colori e impasti richiesti dal compositore inglese. Non cambia invece l’estrema trasparenza del tessuto, in cui archi e legni riescono a dialogare con equilibrio, i chiaroscuri nelle dinamiche (alcune sfumature di pianissimo sono al limite dell’udibile) ma nemmeno la tensione dello sviluppo.
Se ne giova Imogen Cooper la quale è una pianista sensibile ed elegante ma dal tocco molto delicato. La Cooper non possiede il funambolismo tecnico dei grandi virtuosi e qualche bisticcio con la tastiera qua o là le scappa, così come si avverte un veniale squilibrio tra le mani, con la sinistra che fatica ad emergere con lo stesso vigore della destra. Quel che invece c’è, e che in Mozart è ben più importante del mero esibizionismo, è la leggerezza della linea musicale, il gusto per il colore e un’espressività misurata ma non priva di una certa ironia.
La seconda parte di concerto, interamente dedicata a Igor Stravinskij, si segnala innanzitutto per un dato di cronaca: la première tedesca del Chant funèbre che segue a distanza di pochi giorni quella italiana, in occasione della quale mi sono soffermato sulla genesi del lavoro.
La bacchetta di Rattle riesce a trasformare anche questo Stravinskij ancora acerbo, o quantomeno in divenire, in un piccolo gioiello. Oltre a valorizzare al massimo l’intarsio armonico e timbrico dell’opera, la zampata del grande artista si palesa nella tinta orchestrale terrea, che si adatta come un guanto al carattere del brano, improntato a una drammaticità cupa e trattenuta. L’accordo finale, risolto con un grigiore sinistro e spento, nella totale assenza di vibrato e calore, lascia senza respiro.
Ne Le Sacre du printemps (versione 1947) che chiude il concerto, Simon Rattle riesce a spremere fino all’ultima goccia di quell’energia primordiale che permea la partitura, forte di un dominio ritmico e timbrico dell’orchestra pressoché totale. Nell’Introduzione i legni paiono emergere dal sottosuolo, con un andamento brulicante che va via via montando, secondo un crescendo ottimamente calibrato misura dopo misura. Non di meno la cura per gli impasti e le dinamiche è prodigioso: questo Sacre pare ribollire di vapori e profumi ancestrali che vanno addensandosi e svanendo. Se tutto ciò è possibile lo si deve a un lavoro di concertazione capillare in cui ogni dettaglio è pesato e pensato nel quadro di una visione chiara e coerente del lavoro, fortemente teatrale e aderente alla drammaturgia del balletto.
Inutile poi spendere altre parole d’elogio sulla qualità dei Berliner Philharmoniker, capaci di conservare una lucentezza e una rotondità di suono incrollabili in ogni modulazione dinamica, sia negli impalpabili pianissimi, sia nelle esplosioni tonanti a piena orchestra. Anche laddove il direttore sprema i suoi musicisti quasi oltre il limite (gli interventi del clarinetto piccolo nell’Introduzione o gli strappi degli archi nella Danza delle adolescenti sono forzatissimi) non c’è nota o suono che sfugga al controllo.
Trionfo sacrosanto.
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