Un Myung-Whun Chung così immerso nella musica non l’avevo mai visto. Parlo del grande Adagio che congeda Mahler dalla vita e, idealmente, la musica che fu dal presente: di lì a poco sarebbe cambiato il mondo, non solo quello dei pentagrammi. I primi tre movimenti della Sinfonia n. 9 in Re Maggiore Chung li tiene bene in mano ma fondamentalmente li suona, con quel suo classico gusto per il legato e la morbidezza, andando avanti abbandonato al flusso musicale senza forzare mai la mano. In particolare i due tempi di mezzo sono scorrevoli ma meno lambiccati da crucci o retropensieri di quanto mi sarei aspettato, il che non significa affatto che fossero prudenti o trattenuti – la chiusa del Rondò-Burleska è da fiato sospeso – ma smussati, addolciti, questo sì. Nell’Adagio invece Chung ci crede profondamente, ci si tuffa dentro, sembra scavarci per cercare se stesso. Lo tira, lo spreme, prova a squarciare con le mani la tenebra per vederci qualcosa che sfugge continuamente. Probabilmente si commuove pure, e un po’ anche noi dall’altra parte dello specchio.
Tuttavia, se l’intensità emotiva di un concerto è difficilmente argomentabile e impossibile da misurare, ben più agevole è rendere conto della qualità tecnica di un’esecuzione, che in questo caso è davvero molto elevata. Dopo anni passati l’uno accanto all’altra, direttore e orchestra hanno imparato a conoscersi e capirsi. Non solo, ormai quella del Teatro La Fenice è una grande orchestra sinfonica vera e propria, non è più l’orchestra operistica che azzarda un'escursione in territori poco confortevoli.
Benché dopata di aggiunti e facce nuove, vi si riconosce un suono proprio e c’è la flessibilità senza cui Mahler sarebbe solo un mastodonte dall’andatura anserina, ci sono i colori, il respiro lungo. Ci sono anche delle sbavature, sì, ma minuscole, che non danno più l’impressione di essere limiti di chi osa il passo più lungo della gamba ma terreno di conquista, chiamiamolo margine di crescita. La spina dorsale degli archi è di lusso per duttilità e scorrevolezza del suono, gli ottoni sono poderosi e incisivi, i legni buonissimi in solo (ma da registrare meglio in insieme). Soprattutto però questa è un’orchestra che ormai ha autostima e confidenza col repertorio pesante, che sa guardare negli occhi senza arretrare.
Per la Terza in arrivo a marzo c’è da apparecchiare la tavola e aspettare con l’acquolina in bocca. E chissà che negli anni non si arrivi a mettere in cantiere un’integrale, d’altronde dopo la Quinta, la Seconda e questa doppietta, il giro di boa è prossimo.
Successone di pubblico.
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