8 settembre 2019

Blomstedt, il vecchio fanciullo del podio

Quando nel 1993 Herbert Blomstedt incise per Decca la Sesta di Bruckner, sul podio della sua San Francisco, era già un direttore assai esperto con quattro decenni buoni di carriera alle spalle e una meritatissima reputazione di interprete di razza del sinfonismo mitteleuropeo. Oggi Blomstedt di anni ne ha 92 e un po’ si vedono, ma soprattutto si sentono tutti. Non perché il corpo sia cedevole o la stanchezza sovrasti sulla vitalità, tutt'altro, ma per l’essere ormai giunto a quello che idealmente è il traguardo ultimo di ogni musicista: la musica in sé. Blomstedt ha lasciato agli anni addietro, uno dopo l'altro, ogni orpello, ogni sofisticazione e zavorra, arrivando alla sostanza pulita dell'essere in luogo del dimostrare. Niente bacchetta, un braccio destro che batte pulito e quasi scolastico tanta è la chiarezza del gesto, una sinistra minimalista che pennella e aggiusta (come chiama i fiati, che infatti non sbavano una volta che sia una, con quel minuscolo anticipo necessario per farli quadrare: l'esperienza non si insegna), un’elasticità felpata delle movenze che pare cozzare con la rigidità articolare dell'uomo allorché scende dal suo trespolo.

foto STEFANO COVRE


Perché sì, a guardarlo camminare è anchilosato e incerto, ma sul podio Blomstedt si toglie dal groppone almeno due decadi e il corpo, la materia, si trasformano in idea. Sembra tuffarsi nell'orchestra, abbracciarla. Non completamente nei Canti biblici di Dvořák in realtà, che dipana con mestiere un po' svogliato e occhi appoggiati sullo spartito, ma già Bruckner è un’altra cosa.

La partitura sta lì sul leggio perché non si sa mai, ma Blomstedt non ha bisogno di aprirla, ne conosce ogni anfratto e sa rivelarlo a orchestra e pubblico. C’è il dettaglio, ovunque, che però non diventa mai focus ma è sempre parte di un tutto magmatico e coeso. Né c’è compiacimento, laddove per compiacimento si intende ricerca dell’estetica, del suono in quanto bello anziché significante. L’Adagio estetico però lo è eccome, ma senza darlo a vedere. Il gesto musicale e il colore degli archi, tanto morbidi e caldi, non sono mai sorprendenti ma quanto di più giusto e naturale si possa immaginare. Sono semplicemente veri. Non è un Bruckner analitico o rivelatore insomma, nel senso che è più suonato che spiegato, ma con un'anima gigantesca: vi si avvertono una sapienza e una tradizione guadagnate, millimetro dopo millimetro, in una vita.

Se dei Canti biblici si è già fatto cenno, e complessivamente sono il momento meno interessante della doppia inaugurazione del Teatro Verdi di Pordenone ancora una volta affidata alla Gustav Mahler Jugendorchester, ben più riusciti sono i Rückert Lieder, che come l’opera di Dvořák sono affidati alla voce di Christian Gerhaher. Il quale Gerhaher è uno straordinario artista e cantante, seppur la voce inizi a patire qualche incrinatura dello smalto. Timbro di chiarezza tenorile, emissione scopertissima e spesso (volontariamente) ai limiti della sbiancatura, inflessioni su inflessioni. Gerhaher è il genere di cantante che mastica ogni parola, la assapora, fino ad esprimere tutto ciò che gli è possibile esprimere, non bluffa mai. Preferisce correre il rischio di sporcare una nota o arrampicarsi a qualche acuto piuttosto che proteggerlo per farlo uscire rotondo ma avulso dalla sua grammatica espressiva. A perderci chiaramente è la rotondità, che non è sempre immacolata, ma musica e poesia escono sempre vincitrici.

Il lied dalla Resurrezione di Mahler che offre da bis è in linea: intimismo e tanti ceselli ma qualche ombra.

Lo Strauss di Tod und Verklärung è sulla carta, ma anche alla prova del palco, il terreno ideale per esaltare le qualità dell’orchestra, che infatti spara compatta un’onda di suono poderoso e scintillante ma talmente equilibrato da lasciare emergere ogni voce solista e quella di Raphaëlle Moreau forse merita un elogio particolare, perché una spalla che fa cantare il violino così è un lusso.

Lascio per ultima l'Eroica che ha chiuso il secondo concerto, provando a scriverne senza scivolare nella retorica. Questo è un Beethoven puro, in cui virtuosismo, pensiero e sensibilità marciano di pari passo, senza fratture musicali né di concertazione, liquido nel suono, nell’agogica e nello sviluppo. È un’esecuzione che trascende il livello tecnico altissimo, fondendo all’energia una freschezza personale ma misurata, all’aplomb garbato una raffinatezza allergica a qualsiasi traccia di pedanteria. E se ciò riesce è perché l'idea musicale è nelle mani di chi sa realizzarla: una simile abilità nello sbalzare le dinamiche e fondere strumenti e sezioni, senza rinunciare né al corpo del suono, né alla delicatezza cameristica, è cosa da maestro dei maestri.

Difficile dire dove finiscano i meriti di Blomstedt e dove inizino quelli dei musicisti, ma una GMJO così nitida non la si era mai ascoltata, almeno negli ultimi anni. Il suono è levigatissimo e luminoso, terso ma sostanzioso. È raro che le orchestre che vantano una tavolozza timbrica versata ai colori caldi sappiano esprimere tale trasparenza, virtù in genere appannaggio delle compagini più chiare, eppure a volte succede.

Trionfo dopo la prima serata, ovazioni da stadio alla seconda, ma un Beethoven del genere le chiama tutte.

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