27 aprile 2019

Dorilla in Tempe, lascia a’ morti la pace

Ci sono opere che l’inerzia del tempo consegna alla loro più naturale destinazione: l’oblio. La Dorilla in Tempe di Antonio Vivaldi (et al.), ad esempio, negli archivi o in qualche sperduta biblioteca ci stava da Dio. Allora perché andare a rispolverarla? Si scherza, chiaramente. Le riscoperte un qualche valore ce l’hanno sempre, se non altro perché arricchiscono la storia dell’interpretazione, quella del teatro non sempre. E nella Dorilla di teatro ce n’è poco poco.



Il “melodramma eroico-pastorale” su libretto di Antonio Maria Lucchini è un’infilata di arie disomogenee per paternità e ispirazione: dopo la prima del 1726, Vivaldi ci rimise sopra le mani a più riprese espungendo via via, fino ad arrivare versione che si ascolta al Malibran (1734), parecchi numeri per sostituirli con musiche apocrife di compositori di scuola napoletana (Hasse, Sarro, Leo e Giacomelli). Il trucchetto funzionò e la Dorilla ebbe un buon successo, ma oggi se ne avvertono i limiti concettuali e la superficialità. La trama ricalca il più classico dei drammi pastorali, con lui che ama lei e lei che ricambia ma deve sposare quell’altro. Alla fine però “quell’altro” si rivela essere un deus ex machina che sbroglia la situazione e apparecchia l’happy ending.

Drammaturgia banalotta e senza grandi appigli, caratteri stereotipati, azione a singhiozzo che fa due passi avanti nei recitativi e uno indietro nell’aria che segue. Insomma è bravo Fabio Ceresa a cavare un po’ di sangue da un cesto di rape: la butta sul kitsch grottesco e smisurato, mescolando ironia e pathos, geometrie palladiane e dorature barocche, insomma provando a fare le cose in grande, anche se i mezzi lo consentono fino a un certo punto. D’altronde l’opera di Vivaldi nasce proprio così, più per stordire che per scavare in profondità. Il gioco riesce nella misura in cui è possibile creare azione e movimento dove non ci sono, per i miracoli Cerasa si sta ancora attrezzando. Le scene sono del solito affidabile Massimo Checchetto, i costumi di Giuseppe Palella che esagera un po’ con oro e lustrini (ma i cervi sono meravigliosi). Mattia Agatiello è assistente regista e cura i movimenti coreografici.

Sostanzialmente discreto il cast, che difetta però della grande personalità capace di catalizzare azione e attenzione. Manuela Custer è una Dorilla corretta, espressiva e musicalissima cui manca tuttavia la scintilla della virtuosa, Lucia Cirillo un eccellente Elmiro nel canto ma non travolgente. Véronique Valdés è Nomio, ossia l’Apollo sotto mentite spoglie; c’è una sola cosa che questo personaggio dovrebbe avere, ancor prima che le note: il carisma. Nada.
Michele Patti, Admeto, è un vecchio buffonissimo, direbbe Don Giovanni: ha in testa l’opera buffa (si presume su indicazione del regista) e da lì parte. Bella vocalità possente e fisicità esuberante, agilità ancora da oliare un pelo. Valeria Girardello è un’Eudamia un po’ alla Jessica Rabbit, Rosa Bove un buon Filindo.

Le cose migliori, in fin dei conti, arrivano dalla buca. Primo, per il puro dato documentale: l’orchestra della Fenice suona sì a ranghi ridotti, ma anche in assetto “baroque” (quindi corde di budello, trombe e corni naturali, legni antichi et cetera). Secondo perché Diego Fasolis fa le cose per bene: si ascolta il suono “giusto”, che ovviamente di tanto in tanto esce scorbutico e distorto, ma ben pennellato, contrastato e scolpito.

Onorevole as usual il coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Successone.

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