Tagliamo subito la testa al toro, Plácido Domingo è tenore e tale resterà fino all'ultimo dei suoi giorni. Se volete ascoltare un baritono vero, qualunque cosa voglia dire, guardate altrove. Se invece cercate un artista può darsi che siate nel posto giusto. Forse non sempre, pare vada un po' a serate, ma quando il motore gli gira bene Domingo ha ancora qualcosa da dire. Difficile definire esattamente cosa sia, perché il canto in sé o il dominio della parola non fanno gridare al miracolo, affatto, né l’approfondimento musicale e psicologico del personaggio. Certo la freschezza della vocalità è prodigiosa se relazionata all’età e all’adattamento di registro, ma non è nemmeno quella la carta vincente di Domingo, almeno non più. Probabilmente il suo segreto è quella cosa che chiamano carisma, il carisma di chi è arrivato con questo Simon Boccanegra di cui si dà conto alla tremilanovecentonovantanovesima recita d’opera e mentre ne scrivo si appresta a varcare la soglia delle quattromila. E ancora riesce a fare esplodere di applausi la Staatsoper dopo un duetto con Amelia davvero commovente, o a magnetizzare sulla balaustra della buca decine di ammiratrici e ammiratori d’ogni età come fossero adolescenti di fronte a Justin Bieber. Insomma Domingo vale ancora il prezzo del biglietto, non è solo un cantante o un artista, è un fenomeno di costume vero e proprio.
Oltre al protagonista tuttavia, questo Boccanegra viennese ha poco da offrire, fatte salve due luminose eccezioni che hanno nome e cognome: Francesco Meli ed Eleonora Buratto. Lui è in forma strepitosa, anzi, negli anni credo di non averlo mai sentito cantare così bene: sfogato in alto, pulito nella linea e nell’espressività, spavaldo per volume e disinvoltura scenica. Ho sempre pensato che Meli avesse due debolezze: un registro acuto non sfolgorante e certa tendenza a sovraccaricare la dinamica, cantandosi un po’ addosso; ebbene, il suo Adorno ha spazzato via ogni mia perplessità, superando di gran lunga il ricordo delle sue recite veneziane nella medesima parte di qualche anno fa. Acuti brillanti, eleganza, bel fraseggio che non supera mai la linea del “troppo”. Un prova maiuscola.
Eleonora Buratto si appresta a raccogliere il testimone della tradizione dei soprani lirici “all’italiana”, che a Vienna piacciono sempre. Bel timbro morbido e caldo, omogeneità, legato, un registro acuto solare e molto “freniano” e una dolcezza empatica sia nel canto vero e proprio, sia nella caratterizzazione del personaggio.
Il resto è così così. Kwangchul Youn è un Fiesco vocalmente educatissimo e poco più, Marco Caria un Paolo solido ma convenzionale, gli altri non sono indimenticabili, ma soprattutto c’è una direzione totalmente indifferente alle ragioni del teatro e del canto. Philippe Auguin concerta senza trovare un equilibrio ottimale tra le sezioni, copre costantemente il palco, difetta di cantabilità e fantasia e marcia a testa bassa. Poi certo, l’orchestra suona benissimo, si parla pur sempre di una delle migliori compagini operistiche (e non solo!) del mondo, ma per Verdi non basta. Buona ma non straordinaria la prova del coro di casa preparato da Thomas Lang.
C’è ben poco da dire sullo spettacolo di Peter Stein, che inspiegabilmente continua a girare l’Europa da quasi vent’anni. Questo Boccanegra non è solo esteticamente brutto, il che è quasi irrilevante, è inutile. Non succede niente di niente, non c’è un disegno che colleghi una scena con l’altra (un po’ di minimalismo, un po’ di metateatro, un po’ di tradizione a tele dipinte), non c’è un filo logico, non c’è regia ed è anche montato parecchio male. Talmente sconclusionato e mal realizzato da risultare irritante. Da cestinare il prima possibile.
Successo per tutti, ovazioni da stadio per Domingo.
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