8 aprile 2019

Der Rosenkavalier alla Wiener Staatsoper

Uscendo di scena accanto a Herr von Faninal, la Marescialla tende il braccio sinistro all’indietro, come a chiedere a Oktavian il bacio che si è lasciata scappare sul finire di primo atto. Lui capisce, le afferra la mano e gliela sfiora con le labbra, congedandola con un gesto che mescola affetto, devozione e gratitudine. Intanto Sophie volge altrove lo sguardo, quasi a non voler disturbare il loro ultimo istante di intimità.

Se il Rosenkavalier di Otto Schenk è entrato nella storia, un motivo c’è, e non è nemmeno così difficile da capire. Semplicemente è un grande spettacolo. Didascalico certo, appena impolverato da una malinconica decadenza tardo impero e dal tempo che passa, con qualche ingenuità e qualche ruga di troppo, ma grande rimane. D’altronde le rughe bisogna essere capaci di portarle, la Marescialla ne sa qualcosa. Bollarlo come usato sicuro o antiquariato non è semanticamente scorretto, ma è ingeneroso. Primo perché questo spettacolo fa parte della storia del Teatro dell’Opera di Vienna e in quanto tale un posto su quel palco se lo merita di diritto, secondo perché ancora oggi qualcosa da dire ce l’ha. Certo siamo dalle parti della tradizione che più tradizione non si può, quella della cartapesta e dei costumi d’epoca (di Erni Kniepert, bellissimi), ma trattasi di tradizione di gran classe. E poi chi l’ha detto che tradizione e regia siano incompatibili? Schenk, o chi riprende lo spettacolo che porta il suo nome, la regia ce la mette eccome. Ogni singolo artista sa cosa deve fare, tutto è oliatissimo e fluido, i personaggi sono caratterizzati fin nel dettaglio. A volte in modo stereotipato, è vero, come forse non si oserebbe più fare in una nuova produzione, ma è un taglio che non disturba affatto se contestualizzato in un allestimento che con questa replica arriva a sfiorare le quattrocento alzate di sipario. Oktavian è un po’ troppo maschietto (anche perché Stephanie Houtzeel ci va con la mano pesante, almeno nella recitazione), Ochs un buzzurro talmente scurrile e vigliacco da suscitare simpatia, Sophie una bambolina carina-carina, Faninal un uomo sull’orlo di una crisi di nervi. Insomma le sfumature sono tendenzialmente approssimate verso il bianco o il nero, però il teatro c’è. Chi sfugge alla semplificazione dei caratteri è la Marescialla, anche perché Adrianne Pieczonka è una signora artista. Non sottolinea un gesto che sia uno ma lascia ogni intenzione all’ambiguità del sottinteso o del cenno, e così canta, con attenzione ai colori e alla parola, senza enfasi o pose. La voce non è speciale, o meglio si secca un po’ con il salire della tessitura, ma ha ancora l’elasticità timbrica e dinamica necessaria a sostenere l’infinito canto di conversazione con la giusta espressività e le arcate “belcantistiche” del terzetto. Stephanie Houtzeel è un Rofrano un po’ di maniera nella recitazione – quanto è facile scivolare nella parodia quando si recita en travesti - ma assai raffinato e morbido nel canto. La voce sta meglio in alto che in basso, dove suona un po’ sorda, è di bel colore luminoso ed è sorretta da una solida tecnica.

Wolfgang Bankl è un Barone dalla grana vocale grossa ma dalla musicalità finissima, insomma ha un gran mestiere e una buona dose di esuberanza. Leggerina la Sophie di Chen Reiss che scivola un po’ nell’intonazione durante la presentazione della rosa, ma va poi in crescendo.

Vocalmente affidabile, benché tagliato con l’accetta, il Faninal di Markus Eiche, ridotto a personaggio pressoché monodimensionale. Ineccepibile il contributo di tutti i comprimari, che cantano e recitano da manuale del teatro operistico. Piace citare le prove maiuscole di Michael Laurenz (Valzacchi), Ulrike Helzel (Annina) e di Benjamin Bruns, tenore italiano dall’emissione un po’ aperta ma spavalda.

Tiene le redini del carro Adam Fischer il quale concerta, dirige e soprattutto racconta con arte, freschezza e molta personalità. Grande virtuosismo e pochi languori, elasticità ritmica nel modellare i valzer e le giuste ombrature crepuscolari che non trascendono mai nel sentimentalismo. L’orchestra conosce l’opera come le proprie tasche e si sente dalla facilità insolente con cui asseconda ogni scarto agogico del podio, il suo modellare articolazione e dinamiche con libertà sempre diversa, e sa esaltare al massimo grado gli impasti timbrici dell’orchestrazione.

Applausi calorosi per tutta la compagnia.

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