22 gennaio 2019

Robert Trevino, un nome da segnare sul taccuino

Robert Trevino è un gran direttore d’orchestra. Giovane – un maestro a trentacinque anni lo è eccome! –, fisionomia e giovialità vagamente pappanesche e un gesto bello limpido. Il che di per sé significherebbe poco o nulla, non fosse che in questo caso il gesto si traduce in musica, che dall’Orchestra Nazionale della Rai (in forma strepitosa) sgorga limpida, flessibile il giusto e, appunto, in totale risonanza col podio. Che sollecita, allarga, spinge e spreme, ottenendo ad ogni cenno un effetto che non è mai senza causa né ragione, anzi, spesso si ha l’impressione che ci sarebbe ulteriore margine di ricettività a tanti stimoli: certe espansioni o sferzate, oppure il richiamo ad adombrare talune frasi degli archi, potrebbero riuscire ancor più marcati. Ma sono dettagli pulviscolari, quello che si è ascoltato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, terza e ultima replica di un programma che ha avuto modo di rodarsi per bene al Toscanini, è un gran concerto.



Innanzitutto per via del suono di cui si diceva, che non è solo intrinsecamente bello di una nitidezza levigata eppure corposa, ma è anche mobile e cangiante, e, pur in quell’orgia straussiana che è la Alpensinfonie, non perde mai smalto né riesce confuso, nonostante Trevino non sia tipo da lesinare sui decibel. Però ha l’orchestra in controllo assoluto, basti guardare come tiene gli ottoni, anticipando di quella frazione di secondo i loro attacchi con la sinistra così da farli sempre quadrare. Poi è direttore che osa ma non esagera, quindi sviluppa l’incedere della musica senza meccanizzare il metronomo ma nemmeno ammiccando in modo eccessivamente provocante, sfoga i momenti di piena non senza concedersi impeti arrembanti ma evitando di buttarla in cagnara, dosa le dinamiche ad ampio ventaglio ma con plasticità. E infine sa pennellare il suono legando, legando e legando ancora (“non tagliare!”, insegna Chung, ed è così che si fa).

La sinfonica torinese, come detto, è in gran serata. Al netto di qualche sbavatura degli ottoni e, sul finale, dei legni, duttilità e precisione sono pressoché inappuntabili ma soprattutto, ciò che davvero colpisce, è la qualità dell’amalgama; chi avesse qualche dubbio sul fatto che un suono grande non possa essere leggero farebbe bene ad ascoltarsi un concerto così.

Straussiani anche i Vier letzte Lieder che aprono la serata. Sul tappeto dell’orchestra (magnifica, quell’ingresso dei violoncelli in Beim Schlafengehen è così morbido, caldo e delicato allo stesso tempo!) Dorothea Röschmann parte un po’ “dura” e gridacchia qualche fa diesis e un paio di la, ma poi va scaldandosi. La voce è ancora di bel timbro, più opaca in basso si espande poderosa nel medio-acuto mentre sopra c’è sempre qualche tensione di troppo, almeno rispetto alle esigenze di una musica tanto celestiale. Certo, fraseggio ed espressività sono quelli dell’artista di razza, può darsi fosse un po’ stanca o in forma non eccezionale.

Successo calorosissimo a fine concerto.

Nessun commento:

Posta un commento