16 gennaio 2019

Gatti spreme Schumann

Lo Schumann di Daniele Gatti non è affare per damerini. Tinte forti, passioni, un afflato quasi titanico; insomma è romantico che più romantico non si può. Il che affascina, va detto, in tempi in cui la statura d'un direttore pare essere direttamente proporzionale alla sua propensione all'analiticità e alla trasparenza, ma d'altro canto stranisce. Un po' proprio per questo andare controcorrente, un po' perché tale approccio esaspera l'effetto “polpettone” dell'orchestrazione (anzi, a tratti si ha il sospetto che certo spingere il pedale degli archi miri proprio a riequilibrare l’arroganza dei legni).



D'altro canto uno Schumann del genere bisogna saperlo fare, e a Gatti tutto si può dire tranne che non conosca il mestiere. Tiene l'orchestra in pugno con un virtuosismo che si estrinseca ovunque, soprattutto in una quadratura ritmica che è persino insolente nelle "sue" – ormai le conosciamo bene – accelerazioni: quella che stringe la chiusa del Secondo movimento della Sinfonia n. 2 in do maggiore è elettrizzante. Certe scudisciate che spezzano l'articolazione, la nettezza dei cambi di tempo e degli sbalzi, le ondate sonore dei forti sono impressionanti.

Se ne giova più la Sinfonia n. 4 in re minore per orchestra op. 120 che la Seconda, forse per il suo essere presaga di una forma che troverà sviluppo e gloria negli anni che verranno. Gatti la scolpisce in un solo blocco di marmo, quasi identificandola senza se e senza ma come poema sinfonico, cosa che le assicura tensione e coerenza, anche se spesso a discapito della leggerezza.

D'altro canto questo approccio tardo romantico, che pare leggere Schumann più come un pioniere che come uomo del suo tempo, qualcosa sacrifica ed è qualcosa di importante. La frammentazione della scrittura, quell’affastellarsi di dettagli su dettagli, di vicoli ciechi e tentativi irrisolti non traspare che in minima parte, quasi l’esuberanza dinamitarda di Gatti inglobasse ogni sfumatura o ambiguità in uno slancio iper-eroico. Ma qui si entra nella sfera dei gusti personali, che sono sempre legittimi ma mai assoluti, e come tali vanno considerati.

Quel che invece è oggettivo è che la Mahler Chamber Orchestra, pur seguendo il direttore in ogni sua sferzata, avrebbe necessitato di qualche prova in più: certo, si parla di un’orchestra magnifica per pasta, pulita e scattante, ma certe sbavature di struttura degli archi acuti e l’imbolsimento dei pieni orchestrali sono cosa su cui si sarebbe dovuto lavorare un po’ di più.

Ultima nota, lievemente polemica: un direttore di tale statura – in realtà qualsiasi direttore, di qualsiasi statura – farebbe bene ad evitare di canticchiare, ronzare e bofonchiare per l’intera durata del concerto, ne va della sua stessa riuscita.

Pubblico del Comunale di Treviso in estasi, trionfo.

Recensione pubblicata su OperaClick

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