La felicità vista attraverso gli occhi di un altro. Il Werther di Rosetta Cucchi in scena alla Fenice non è il classico triangolo amoroso lui-lei-l’altro, è piuttosto una storia di illusioni e delusioni. Lui, Werther, sogna la famiglia perbene alla “Mulino Bianco” e quell’amore perfetto che probabilmente esiste solo nei libri e nelle fantasie (tardo)adolescenziali, lei è l’incarnazione dell’angelo del focolare e pare essere la tessera perfetta per far quadrare utopie e realtà.
Il problema è che la vita vera è un po’ diversa e questo Werther alienato non riesce a incasellarcisi o adattarsi, ma rimane in disparte impotente ad osservare lo scorrere dell’esistenza altrui, o a ricordare i sogni perduti stravaccato su una poltrona, come rivivesse l’intera vicenda in un flashback. Sullo sfondo, in pantomima, scorrono i frammenti di una vita borghese da romanzo rosa (forse quella del piccolo Werther?) in cui il marito ama la moglie, la moglie ama il marito e le giornate scorrono via tra coccole e bacetti.
Chiaro, lineare, semplice e ben realizzato. Lo spettacolo della Cucchi funziona a dovere e si fa seguire dall’inizio alla fine, anche perché il lavoro su solisti e comparse è didascalico ma molto curato. La scena è dominata dallo scheletro di una casetta a due piani per i primi due atti, nel terzo ci si addentra nel salottino borghese della coppia Charlotte-Albert, il quarto è una radura spoglia e tetra. Insomma le scene (Tiziano Santi) fanno pensare un po’ a Ibsen, e infatti sono efficaci. In linea con il disegno generale i costumi di Claudia Pernigotti mentre Daniele Naldi (luci) avrebbe potuto osare qualcosa di più.
Sarebbe dovuto esserci Piero Pretti ad assumersi oneri e onori del ruolo del titolo in questa produzione ma un malanno di stagione l’ha messo fuori gioco. L’ha degnamente sostituito Jean-François Borras che, senza una prova nelle gambe e nella gola (alla generale ha cantato Sébastien Guèze), si è fatto assai valere. La voce è chiara e leggermente secca in alto, il volume non è impressionante ma riempie bene la sala, eppure, al netto dei pruriti vociologici, quello di Borras è un Werther che conquista. Morbido, sfumato, ben cesellato nelle dinamiche e nelle mezzevoci senza sbrodolamenti larmoyant, patetico il giusto. Nei primi due atti c’è qualche tensione di troppo negli estremi acuti (che poi sono solo un La e un Si), ma dal terzo la prova decolla con un’eccellente esecuzione dell’aria e un finale altrettanto sentito.
C’è poco da rimproverare a Sonia Ganassi, Charlotte, che canta con classe e, dopo un inizio non irreprensibile, sfoggia anche un’invidiabile omogeneità di timbro. Qualche affondo marcato e un po’ di vibrato qua e là fanno capolino, ma sono dettagli. Quel che invece non è affatto un dettaglio è che si fatica a crederle, e non per limiti intrinseci dell’artista o della cantante, ma perché a questa Charlotte manca proprio l’afrore adolescenziale. È inevitabile che sia così d’altronde, ma perché non andare su ruoli teatralmente più calzanti?
Simon Schnorr è un Albert assai modesto: stona parecchio e si arrabatta per tenere a bolla un’emissione sbilenca. È invece una piacevolissima sorpresa la Sophie di Pauline Rouillard che ha squillo, freschezza e verve.
Armando Gabba è una delle presenze fisse nel teatro veneziano e ha solido mestiere, che emerge anche dal suo Le Bailli, parte che tuttavia richiederebbe un cantante dal baricentro più grave, tant’è che in basso la voce baritonale di Gabba non sempre si impone a dovere. Anche Cristian Collia e William Corrò fanno parte della, per così dire, compagnia fissa del teatro e si disimpegnano senza problemi nei panni di Schmidt e Johann.
I figli del borgomastro sono solisti del Kolbe Children’s Choir e, pur con qualche incertezza, se la cavano degnamente, Safa Korkmaz e Simona Forni sono rispettivamente Brühlmann e Käthchen.
Dirige Guillaume Tourniaire, il quale ha due virtù: concerta e tiene molto bene l’Orchestra della Fenice, che è pulitissima e precisa, e individua una tinta “sua”. È un colore tendenzialmente cupo, a tratti plumbeo, e forse alcuni affondi potranno suonare eccessivamente grevi a certe orecchie, ma narrativamente funziona, anche perché, pur nell’oscurità generale dell’amalgama, Tourniaire scampa il rischio di impantanare in una melma indistinta le varie linee, mantenendo un pregevole equilibrio e dando il giusto risalto ai soli. Certo un briciolo di morbidezza in più porterebbe molti punti al suo lavoro e non farebbe torto alle ottime intenzioni interpretative del protagonista.
Successo netto e caloroso con punte di entusiasmo per il salvator della patria, Jean-François Borras.
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