Non scriverò nulla sulla bellissima Damnation de Faust di Terry Gilliam che ho visto alla Staatsoper di Berlino, purtroppo non ne ho il tempo (però segnalo un grande Rattle, in una delle sue non frequentissime apparizioni operistiche).
Di Simon Rattle parlo in ogni caso in questa recensione dove provo a raccontare il memorabile concerto che ha tenuto alla Philharmonie con i "suoi" Berliner e la pianista Imogen Cooper.
Qui invece racconto un concerto di Denis Kozhukhin e Daniel Barenboim alla Konzerthaus, in questo caso però si vola nettamente più in basso.
Denis Kozhukhin e Daniel Barenboim ovvero “la strana coppia”, o forse sarebbe semplicemente più corretto parlare di una coppia male assortita. Si incontrano nel Rachmaninov del Primo concerto per pianoforte e orchestra alla Konzerthaus di Berlino, l’uno dinnanzi a uno Steinway, l’altro sul podio della sua Staatskapelle Berlin. Che si tratti di due signori musicisti è indubbio: il valore del direttore è noto all’universo e in altri siti, direbbe qualcuno, quello del più giovane pianista russo lo si scopre in corso d’opera, nell’ottimo bis e, a momenti, nello stesso Rachmaninov. Ciò che invece funziona a fatica è l’amalgama tra i due. Il delicato e leggero Kozhukhin, garbato ma timido nel tocco, soffre tremendamente le sciabolate sonore che gli piombano sul capo e finisce inesorabilmente travolto dai marosi orchestrali di Barenboim. Il quale Barenboim non rinuncia alle proprie cifre distintive: sonorità dense e imponenti, ben impastate nei pianissimi ma al limite nei forti, spesso eccessivamente imballati e ruvidi. Kozhukhin ci rimane sotto, sia in termini di volume sia di personalità, risultando, se non inconsistente, impari al “peso” del lavoro in programma. E probabilmente non lo sarebbe, avesse accanto a sé un accompagnatore più attento, e soprattutto disposto a fare un passo indietro. L’approccio di Barenboim viceversa necessiterebbe di un solista capace di frustare i tasti con vigore e affrontare la musica con un’espressività più marcata, sia nel colore, sia nel fraseggio. Fatto sta che i due non riescono a trovarsi a metà strada e a perderci è solo Rachmaninov, il cui concerto finisce per essere “eseguito” senza una coerenza stilistica e interpretativa unitaria.
I Notturni di Claude Debussy che aprono la seconda frazione di concerto sono il giusto morbidi e vaporosi, ben cesellati nelle dinamiche e nella tinta ma non scavalcano il muro che separa l’esecuzione di eccellente routine dalla grande interpretazione, probabilmente per l’assenza del necessario abbandono nel modellare il tempo e di un pizzico di languore nel legare i suoni. Nelle Sirene le voci femminili del coro della Staatsoper non partono benissimo ma si riscattano in corso d’opera.
Il Bolero di Ravel che chiude il concerto è acceso dall’istrionismo un po’ ruffiano di Barenboim che, a quanto pare, piace molto al pubblico di casa. Il maestro sale sul podio, dà il via, si lascia cadere le braccia lungo i fianchi, posa le mani al parapetto del podio e abbandona l’orchestra a se stessa, limitandosi a qualche cenno dove necessario. A qualche minuto dal termine poi scende dal podio – furbescamente dopo aver gestito, peraltro molto bene, il progressivo stringendo del tempo - per accomodarsi accanto a una violoncellista. La Staatskapelle chiude da sola, tra le ovazioni del pubblico.
Ma com’è questo Bolero? Marziale, decisamente rigido nel tempo e poco “francese”, turgido nelle sonorità ma ben pesato negli equilibri interni, almeno fino al finale che inciampa in qualche eccesso di clangore. Giova alla riuscita del brano il valore delle prime parti, i cui interventi sono di assoluta qualità, benché spronati dal podio a una certa “aggressività” nel mordere la melodia.
Resta da dire del brano di apertura, Deep Time di Harrison Birtwistle che, pur con qualche buona idea e una manciata di suggestioni notevoli, lascia la sensazione di déjà-vu. Anche direttore e orchestra non danno l’impressione di crederci fino in fondo e il pezzo scivola via tra gli sbadigli e gli svogliati applausi del pubblico (pochi). Pubblico che invece accoglie con entusiasmo Kozhukhin, a termine della prima parte, e con altrettanto calore saluta il padrone di casa Barenboim e l’orchestra a fine performance.
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