Come testimoniano le Cronache, Igor Stravinskij fu allievo riconoscente e devoto ma non acritico di Nikolaj Rimskij-Korsakov. Non solo, a differenza di quanto si potrebbe pensare, molti degli spunti più intriganti dei balletti parigini derivano da idee dello stesso Rimskij, ben lo dimostra Richard Taruskin nei suoi scritti.
C’è tuttavia un altro punto di contatto tra i due musicisti, forse meno noto: quando l’anziano maestro morì, nel 1908, Stravinskij dedicò alla sua memoria un lavoro, Pogrebal’naya Pesnya (Canto funebre), che venne eseguito in una sola occasione, prima di cadere nell’oblio, complice lo smarrimento della partitura. I tumulti della Russia di inizio Novecento che culminarono nella rivoluzione d’ottobre, uniti alle peripezie personali che stavano segnando la vita del compositore, fecero sì che si perdessero le tracce materiali del Canto Funebre, almeno fino a un paio d’anni fa, quando la ricercatrice Natalia Braginskaija rinvenne negli archivi del conservatorio di San Pietroburgo le parti orchestrali. L’opera poté allora essere riassemblata e messa in circolazione.
Toccò a Valeri Gergiev “tenere a battesimo”, se così si può dire, quest’araba fenice risorta che giunge finalmente in Italia, per la prima volta, con James Conlon e l’Orchestra Sinfonica Nazionale Della Rai in un doppio appuntamento che, dopo una recita torinese, approda al Teatro Verdi di Pordenone per chiuderne la stagione.
Le premesse finora snocciolate non fanno che aumentare la sorpresa nel trovarsi di fronte a un lavoro in netta rottura con la tradizione russa di Rimskij-Korsakov ma allo stesso tempo ancora distante dallo Stravinskij che verrà (l’Uccello di Fuoco, che vedrà la luce l’anno successivo, sembra lontanissimo).
C’è piuttosto un clima mitteleuropeo, persino un certo wagnerismo di risulta percepibile già dal tremolo degli archi bassi che apre il brano. Il lavoro sul cromatismo e sull’armonia (Stravinskij, andando a memoria, lo ricorderà come “il mio lavoro migliore prima dell’Uccello di Fuoco”) pone il Canto funebre nell’alveo di una ricerca musicale ben distinta dagli esperimenti coloristici e soprattutto ritmici che verranno di lì a poco con i balletti, soprattutto con Le sacre du printemps.
Cito Le sacre (datato 1913) proprio perché presente anch’esso nel programma del concerto; l’accoppiamento con un lavoro di poco precedente, eppure così diverso, evidenzia come sia evoluto nel giro di pochi anni il linguaggio del compositore e, soprattutto, come siano mutati gli orizzonti verso cui ha puntato il timone.
Tanto più che l’approccio di James Conlon ai due lavori è similare: sonorità compatte, più versate al turgore che alla trasparenza, senza che ciò si traduca in eccessiva pesantezza né in un bilanciamento confuso. Pur nella densità del suono, il dettaglio è sempre ben esposto, gli equilibri interni calibrati con attenzione. L’approccio ai tempi è forse tetragono, o meglio a tratti si avverte l’assenza di uno spunto che accenda la misura, illuminando il fraseggio e lo sviluppo dell’agogica, di contro si apprezza la cura certosina per le dinamiche, che sono ben pesate in ogni sfumatura di piano e di forte e, soprattutto, l’esposizione dell’architettura globale delle opere.
In ciò lo aiuta un’orchestra lodevole per precisione e qualità, capace di mantenere nei fortissimi come negli attacchi più impalpabili una preziosa rotondità del suono.
Quello che si ascolta non è forse uno Stravinskij rivelatore ma è sicuramente suonato molto bene, solido e serrato, cosa tutt’altro che banale considerata la difficoltà della partitura.
Tra i due brani citati trova spazio un altro colosso del Novecento russo: Dmitrij Šostakovič con il suo Concerto per violino n. 1 in la minore, op. 77. Ray Chen è il classico baby fenomeno che sta entrando in quel collo di bottiglia chiamato maturità, che chiede allo strumentista un salto di qualità sul piano interpretativo e “intellettuale” per confermarsi ai massimi livelli. Il valore tecnico di Ray Chen è indiscutibile, anzi, è mostruoso: il dominio della tastiera e del suono è assoluto, sia nelle cascate di note che chiudono la Burlesca, sia nelle lunghe arcate spianate dei movimenti dispari. Il legato è impressionante (anche nel bis bachiano), soprattutto considerando che si sposa a una plasticità della dinamica senza fratture e senza alcun impoverimento del colore. Sul virtuosismo “agile” poi c’è ben poco da dire, tali sono la facilità e la perfezione con cui viene affrontato e superato.
Il concerto di Šostakovič però chiede anche qualcosa di più, qualcosa che il giovane Chen, con i suoi 28 anni, non può dare fino in fondo. C’è sì lo studio approfondito, c’è l’espressività “giusta”, il lavoro di bulino su ogni passaggio e su ogni suono ma, forse proprio per questo, a tratti si ha l’impressione di uno op.77 troppo “per bene”. Resta tra le pagine dello spartito quel qualcosa di non detto, di malato, di soffocato e straziante necessario per restituire l’essenza del Concerto nella sua pienezza.
Certo si tratta di fare le pulci a un’esecuzione maiuscola, che infatti ha acceso l’entusiasmo del pubblico (anche nei momenti meno opportuni, come nel finale dello Scherzo). Giova poi molto all’eccellente riuscita musicale del brano la sensibilità del Conlon accompagnatore, ben lungi dall’essere un comprimario, e l’intelligenza del violinista nel sapersi appoggiare all’orchestra, rinunciando a certi vezzi divistici assai comuni e deteriori.
Come accennato, trionfo per tutti con punte di assoluto entusiasmo per Ray Chen, che può congedarsi solamente dopo aver concesso due bis (Capriccio n.21 di Paganini e Gavotta en rondò dalla Partita per violino n.3 di Bach).
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