1 febbraio 2016

Poche idee nello Stiffelio al Teatro La Fenice


Stiffelio non è il capolavoro di Verdi eppure è un’opera che meriterebbe una considerazione maggiore. Benché musicalmente resti legata a modelli precedenti – e Rustioni sa metterlo sufficientemente in evidenza – è soprattutto nell’impostazione della drammaturgia che si scorge l’elemento di rottura e, ancora più, nella definizione psicologica dei personaggi. Con Stiffelio insomma Verdi, il Verdi di galera, inizia a gettare le basi di quello che sarà il suo teatro più maturo.



Va pertanto riconosciuto il merito al Teatro La Fenice di aver riproposto un titolo affascinante e scarsamente frequentato, puntando su un compagnia che avrebbe più d’un motivo di interesse. Ciò detto, si ravvisa tristemente l’inadeguatezza di alcune delle parti in gioco, che mettono una pesante ipoteca sull’esito complessivo della produzione. O meglio, se ciò che si ascolta, pur con qualche distinguo, nel complesso funziona e convince, è la componente “visiva” a lasciare sbigottiti.

Senz’altro il regista Johannes Weigand avrà opportunamente meditato sull’opera verdiana e sul linguaggio specifico del melodramma ottocentesco, purtroppo quali siano le conclusioni maturate rimane un insondabile mistero. Per l’intera durata dello spettacolo sul palco non accade niente, i personaggi sono immobili, incapaci di interagire l’uno con l’altro o con la musica e i pochi accenni di recitazione paiono legati all’iniziativa dei singoli. Le scene tetre e scarne di Guido Petzold confondono ulteriormente le idee senza aggiungere riferimenti, anzi, danno l’impressione di tentare un maquillage furbetto su un allestimento che, per intenzioni, si adagia nel solco della tradizione più decrepita. Un doppio pannello mobile spezza il palco nella sua larghezza, dietro, sullo sfondo, un palo sormontato da tre enormi fari funge da elemento decorativo e, all’occorrenza, da pulpito per le prediche di Stiffelio. Niente più. Il disegno luci dello stesso Petzold esplora tutte le sfumature che vanno dal grigio antracite al nero, aggiungendo immobilismo all’immobilismo.

Come accennato vanno assai meglio le cose sul versante musicale. Daniele Rustioni, aiutato da un’orchestra in ottima forma, fa ascoltare una concertazione attenta agli equilibri interni e dai tempi agili che si traduce in una narrazione efficace. Restano da limare di alcuni passaggi che, nell’eccesso d’impeto, tendono a sovrastare le voci.

Piace senza riserve Stefano Secco nei panni del protagonista: canto sicuro ed espressivo, voce salda in ogni registro, fraseggio curato. Tutto funziona a dovere nel tratteggiare un personaggio compiuto e coerente.
Fatica invece Julianna Di Giacomo, Lina, ad organizzare in modo convincente la propria generosissima vocalità, soprattutto nel registro acuto.
Dimitri Platanias ha analogamente uno strumento importante e, tutto sommato, una maggior consapevolezza tecnica nel manovrarlo. Gli fa difetto l’attenzione per la varietà di sfumature che, in fin dei conti, anche una parte monolitica come quella di Stankar richiederebbe. Positive le prove di Francesco Marsiglia, Raffaele, e di Simon Lim, Jorg dalle apprezzabili risorse vocali.
Brava e bella Sofia Koberidze, Dorotea. All’altezza il Federico di Cristiano Olivieri.

Impossibile non lodare il coro preparato da Claudio Marino Moretti che, ad ogni impegno, si conferma ad altissimi livelli.

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