Capita spesso di lodare il Teatro La Fenice di Venezia, sia per le scelte programmatiche, sia per la qualità della proposta. Tuttavia la nuova produzione de I Capuleti e I Montecchi, lavoro di Vincenzo Bellini dall’ispirazione a corrente alternata, non convince – e spiace ravvisarlo – nonostante le premesse fossero tutt’altro che sconfortanti.
Pesa non poco sull’esito complessivo della produzione la debole regia di Arnaud Bernard il cui konzept non brilla per originalità né può dirsi realizzato nel modo migliore. Bernard tenta di dare consistenza alla debole drammaturgia del libretto di Romani – dimenticatevi Shakespeare che con il lavoro belliniano condivide solo il nome proprio dei protagonisti – rivisitando un luogo comune frusto ed abusato: i personaggi sono figure di dipinti che fuggono dall’immobilità delle tele per prendere vita e compiere il proprio destino prima di tornare, in un finale saputo sin dall’ouverutre, all’origine, in quella vita immobile ed estranea allo scorrere del tempo. L’azione è ambientata in una pinacoteca in cui agiscono, parallelamente ai personaggi, uno stuolo di operai intenti a riorganizzare la disposizione dei quadri. Il tutto è dominato, al di là di qualche trovata interessante, dall’immobilismo e dalla prevedibilità.
Oltre ogni previsione spiace ravvisare un esito inatteso, se non deludente quantomeno interlocutorio, dell’esecuzione musicale. L’orchestra di Omer Meir Wellber disegna un Bellini assolutamente inedito ma non per questo convincente. Il direttore sceglie sonorità che stridono non poco con il, per così dire, “comune senso dell’estetica belliniana”: forti orchestrali esplosivi e chiassosi alternati a colori delicati, esasperazione dei contrasti drammatici e musicali. Ne risulta una lettura anni luce lontana dal Bellini apollineo e soave cui si è abituati, dominata dall’ossessione di dare consistenza alla narrazione dell’opera calcando la mano sugli effetti più epidermici. La scelta tutto sommato non è deprecabile di per sé, data la plausibile difficoltà nello scovare ragioni drammatiche o psicologiche più profonde in partitura, ma è realizzata non senza eccessi e forzature. Infatti, al di là delle questioni di gusto (bello, brutto, volgare, bandistico, elettrizzante, ognuno valuta secondo la propria sensibilità) manca alla lettura di Wellber un disegno unitario nella sua realizzazione sicché il passaggio tra i momenti elegiaci e quelli più corruschi pare spesso arbitrario ed incoerente e l’esito complessivo ha i tratti di un collage fatto di tante intenzioni differenti e disorganizzate.
Jessica Pratt è di gran lunga la migliore in campo grazie alla qualità del canto e alla purezza della linea, pur non brillando per espressività e fantasia nell’articolazione delle frasi.
Delude invece Sonia Ganassi (Romeo) la cui prova sconta un primo atto sottotono, in netta difficoltà nel registro grave come negli acuti; va decisamente meglio nella seconda parte di recita, aiutata dalla tessitura più comoda che le consente di esprimere la propria musicalità e le buone idee di fraseggio. Shalva Mukeria è un Tebaldo di inerte correttezza. Positive le prove di Luca Dall’Amico, solido Lorenzo e di Rubén Amoretti, Capellio non rifinitissimo ma efficace.
Il coro di Claudio Marino Moretti è una garanzia.
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