Il 28 aprile del 1950 Giuseppe Verdi scrive a Francesco Maria Piave “…avrei un altro sogetto che se la polizia volesse permettere sarebbe una delle più grandi creazioni del teatro moderno… è immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet…”. Non solo. Poco più in là Verdi sollecita il librettista a “correre per la città” in cerca di una “persona influente” che possa consentire la messa in scena di un tema tanto delicato, o per meglio dire di “ributtante immoralità ed oscena trivialità” (parole del Governatore veneziano). Insomma che Rigoletto sarebbe stato qualcosa di scomodo è chiaro a tutti fin da subito e le note vicissitudini con la censura stanno lì a testimoniarlo.
Cosa nel lavoro di Hugo appassionasse il compositore diventa lampante quando, pochi giorni più tardi (l’8 maggio), definisce Triboletto una creazione degna di Shakespeare. Infatti lo è. Lo è per la coesistenza di diversi registri, di tragico e grottesco, di orrido e sublime, per l’universalità di temi e sentimenti che vi sono racchiusi, i più bassi e vili assieme alle virtù più nobili. Lo stesso protagonista, mordace e spietato buffone deforme ma al contempo padre capace di una smisurata umanità tra le mura di casa, esemplifica al massimo livello la complessità shakespeariana del Rigoletto. E, si badi, tutto ciò emerge dalla musica come dal libretto.
Questa premessa è necessaria per chiarire il giudizio sulla produzione firmata da Jean-Luois Grinda che ha inaugurato la stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste.
Se Rigoletto non è inquietante, disturbing, se non suscita nello spettatore un misto di pietà e disgusto, di empatia e ribrezzo, a cosa serve? Bisognerebbe chiederlo a Grinda, il quale annacqua e congela ogni emozione in una placida eleganza che può soddisfare forse il senso estetico ma che non riesce ad esplorare le pieghe più oscure di questo capolavoro.
Insomma, non fosse per le scene austere e atemporali di Rudy Sabounghi, né belle né brutte, saremmo di fronte all’ennesimo spettacolo di polverosa tradizione, ove ogni personaggio fa quello che ci si aspetta, ricalcando gli stereotipi più rassicuranti, con tutti i tic e i luoghi comuni operistici radicati nell’abitudine. Non che ci siano particolari demeriti nella conduzione degli artisti: la recitazione è convenzionale ma non trascurata, le masse sono ben manovrate (merito senz’altro di Vanessa d’Ayral de Sérignac che ha curato la ripresa triestina), eppure lo spettacolo non riesce a smuovere quella patina di superficialità e onesto mestiere su cui sembra adagiarsi. Le poche idee paiono raramente vincenti mentre più spesso risultano avulse o incoerenti.
Molto efficace il disegno luci di Laurent Castaingt, soprattutto nel primo atto.
Foto Fabio Parenzan |
Sul fronte musicale le cose vanno decisamente meglio. Fabrizio Maria Carminati è un direttore che garantisce sempre una buona tenuta narrativa e musicale. Magari non emergono particolari finezze o dettagli illuminanti ma ci sono, in compenso, una sensibilità per il teatro ed un’attenzione alle necessità del palco – non intese come capricci, sia chiaro – assolutamente preziose. La concertazione è attenta: il suono è equilibrato, le sezioni orchestrali fuse con sapienza.
Si avverte tuttavia, nel complesso, un’eccessiva uniformità nelle dinamiche che alla lunga muta in piattezza (un po’ di coraggio in più nel volume, in certi momenti, non spiacerebbe). Merita sicuramente un plauso la rinuncia a molti vezzi di tradizione, purtroppo non tutti (l’insopportabile modulazione prima di “Sì vendetta” è ancora al suo posto illegittimo).
Risponde alla perfezione l’Orchestra del Verdi di Trieste, al solito affidabilissima per precisione e qualità.
Ascoltando e guardando Sebastian Catana si percepisce chiaramente un lavoro approfondito di studio della parte: l’accentazione, i colori, le dinamiche, tutto è ben pensato e rifinito. Ciononostante questo Rigoletto non convince totalmente, un po’ per la convenzionalità dell’interpretazione, che per quanto varia risulta troppo saputa e prevedibile, un po’ per certi limiti nell’emissione, soprattutto quando la tessitura si fa acuta, con la voce che tende a restare in gola e uscire opaca.
Antonino Siragusa ha senz’altro tutte le note della parte nonché una solidità tecnica che gli consente di affrontare ogni registro senza sbavature d’emissione né di intonazione, proiettando il suono con facilità. Certo la voce è, più per timbro che per peso, lontana dalla pienezza lirica che siamo abituati ad associare al Duca di Mantova e a tratti (duetto con Gilda nel primo atto, Aria nel secondo), pare soffrire un po’ la scrittura. Va detto che, trattandosi di un debutto assoluto, Siragusa avrà modo di aggiustare i minimi problemi, portando a completa maturazione la parte.
Aleksandra Kubas-Kruk, Gilda, alterna cose pregevolissime (un ottimo Caro nome) a momenti di difficoltà, soprattutto nel secondo atto. La voce è di bel colore e, benché leggera, corre con facilità in sala, ma non è sempre ben controllata: gli acuti ad esempio riescono a volte alla perfezione, altre striduli e fissi; il fraseggio andrebbe ulteriormente rifinito.
Lo Sparafucile di Giorgio Giuseppini è solido e imponente ma, complici alcune scelte registiche, a tratti eccessivamente ruvido. Vocalmente impeccabile la brava Antonella Colaianni, purtroppo mortificata da una regia che la costringe a ricalcare il trito stereotipo della Maddalena seduttrice caricaturale.
Pregevole il Monterone di Frano Lufi, all’altezza della situazione tutti gli altri.
Ottima la prova del Coro del Verdi che, sotto la guida di Francesca Tosi, pare aver ulteriormente guadagnato in compattezza e pienezza dell’amalgama.
Teatro pienissimo e pubblico entusiasta, bene così.
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