7 maggio 2017

La Sonnambula al Verdi di Trieste

Pochi mesi fa, una fetta cospicua e rumorosa di pubblico triestino sotterrò di fischi un Flauto magico (tutto sommato interessante) a firma di Valentina Carrasco, colpevole di empietà, lesa maestà, eresia e tutto il resto. Sua colpa l’avere ambientato il Singspiel mozartiano in una casa di bambole. Ora al Verdi sbarca La Sonnambula di Bellini, in un allestimento di Giorgio Barberio Corsetti proveniente dal Petruzzelli di Bari. Indovinate dove viene calata la vicenda? Esattamente, in una casa di bambole. Esito: successo unanime. 

Foto Fabio Parenzan


Due pesi e due misure si direbbe, e non se ne capisce la ragione, anche perché il lavoro della povera Carrasco reggeva su una coerenza drammaturgica e su una solidità tecnica di ben altro spessore rispetto alla ricontestualizzazione, tutto sommato velleitaria e stantia, operata da Barberio Corsetti.

La Sonnambula diventa, per l’appunto, una storia di bambole. I personaggi prendono vita da tre (orribili!) pupazzi, e come pupazzi si muovono “lillipuzianamente” in un mondo sospeso tra sogno e veglia, tra pezzi d’arredamento in macroscala. 
L’idea però si arena qui e lo spettacolo, per il resto, si articola secondo i crismi della più rassicurante tradizione. Cambia lo sfondo, quello sì, dal momento che in luogo di mulini e monti  svizzeri spuntano un lettone, una poltrona gigantesca, un comò nei cui cassetti riesce a nascondersi il soprano stesso e altro ancora. Insomma il taglio drammaturgico, che vorrebbe esaltare un certo infantilismo di Amina, si trasforma in un mero dato di contesto che nulla aggiunge a quanto sappiamo già della Sonnambula, del linguaggio belliniano, di Elvino e dei rapporti tra i protagonisti.

Può farci poco Fabio Cherstich, il quale rimonta lo spettacolo senza riuscire ad infondervi un dinamismo che riscatti la pochezza del disegno originale.

Scene e costumi di Cristian Taraborrelli hanno un grave difetto: sono molto rumorosi nei movimenti, il che fa a pugni con la delicatezza della musica belliniana, rovinando più di un momento.
Il disegno luci di Marco Giusti non riserva particolari sorprese.

Foto Fabio Parenzan

Sul fronte musicale non si ascoltano meraviglie ma le cose vanno decisamente meglio. Aleksandra Kubas-Kruk sa difendersi negli scomodi panni di Amina. La voce non è grande né particolarmente accattivante ma è ben emessa, le note e le agilità ci sono, pur con qualche fissità di troppo in acuto, e anche il personaggio nel suo complesso è tratteggiato in modo convincente. Ciò che manca è una maggiore incisività nell’accentare, nel fraseggiare e soprattutto nel tenere il palco.

Bogdan Mihai è un Elvino pallido, musicalmente corretto ma debole per temperamento e vocalità.

Filippo Polinelli non replica le eccellenti prove della scorsa stagione: il suo Conte Rodolfo, pur esibendo una spiccata sensibilità nel dare colore ed espressività alle parole, in particolar modo nei recitativi, soffre di qualche increspatura nella linea e, stranamente, anche di volume ridotto.

Positiva la prova della brava Olga Dyadiv, Lisa squillante e ben calata sulla scena. Marc Pujol è un Alessio rivedibile. Ottimo il contributo di Namiko Kishi, Teresa, e di Motoharu Takei, Notaro.

Guillermo García Calvo firma una direzione talmente attenta al palco e agli equilibri da risultare sì garbata e pulita ma, a tratti, eccessivamente piatta, soprattutto nello spettro dinamico. L’Orchestra del Verdi si conferma, al solito, formazione di assoluto affidamento.

Bene il coro preparato da Francesca Tosi.

Applausi per tutti, qualche isolata contestazione per il tenore.


Foto Fabio Parenzan

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