18 febbraio 2019

Iván Fischer dirige Stravinskij

L’inizio è quasi da cabaret. L’orchestra attacca l’Intrada dei Four Norwegian Moods per conto proprio mentre Iván Fisher entra in scena tra gli applausi, lo Scherzo à la russe è perfetto ma un pelo ingessato, nel Tango si alzano dalle sedute due professori che danzano attorno al podio con molto impegno ma passionalità rivedibile. L’effetto è simpatico ma non scalda.

Poi con la Sinfonia di Salmi sale sul palco il Cantemus Kórus e da lì Iván Fisher e la Budapest Festival Orchestra iniziano a fare sul serio. Lui ha quel che si direbbe un approccio apollineo alla musica, non forza niente, concerta con tale perfezione da lasciare sbalorditi e tiene sulla punta della bacchetta ogni semibiscroma. Voci – che belle: un coro nudo, quasi diafano e scarnificato nell’emissione – archi, fiati e ottoni si sposano con equilibrio da mixaggio al computer. Nessuno sgomita, ogni linea è sempre chiara ma perfettamente collocata in un disegno interpretativo e timbrico generale. Il Laudate Dominum che chiude il cerchio toglie il fiato. Nessun effettismo, nessuna sottolineatura, ma quasi un precipizio a spirale di voci e suoni spettrali che si fanno sempre più inquietanti. Raffinatissimo, nel pensiero e nella realizzazione.

Stravinskij anche nella seconda parte del concerto che ha visto il ritorno dei complessi ungheresi al Giovanni da Udine. Le sacre du printemps è esattamente come uno se la aspetta da Fischer e company. Virtuosismo insolente, colori su colori, controllo totale di ritmica e sonorità. Lui sul podio è un trattato vivente di direzione d’orchestra: il gesto non è elegantissimo ma ha una chiarezza “tecnica” persino ammaliante a vedersi, per come chiama e tiene i fiati, per come ruba e ammorbidisce il tempo con minimi ritardi del battito, per l’abilità di far seguire un effetto al minino cenno.

Anche nel Sacre, nessuna furia, Fischer non è il genere di musicista che esaspera i contrasti d’articolazione o dinamica sottolineando ogni accento con il righello o sparando decibel a mo’ di subwoofer. Insomma non è il direttore rockettaro che spreme l’orchestra come fosse una Les Paul nella Danza delle adolescenti e non pesta sulla grancassa, ma pensa, spiega, analizza e fonde tutto insieme. È un intarsiatore. La sua Budapest Festival Orchestra – che è sua in tutto e per tutto: lui l’ha fondata dal nulla nel 1983 e lui l’ha portata ai vertici mondiali – non è solo una prodigiosa macchina sonora, ma è una delle pochissime orchestre al mondo ad avere un’identità timbrica propria e la capacità di sposare alla ricchezza dell’amalgama una trasparenza analitica. La pasta è sì calda e polposa, ma tutto è sempre chiarissimo, dosato al microgrammo e non c’è equilibrio che sgusci via o linea che soverchi le altre.

E poi la dovizia di dettagli: l’ingresso dei violoncelli, quello misterioso e sepolcrale degli archi gravi nelle Danze primaverili e il crescendo impercettibile e inesorabile che lo porta a risolversi in un Gioco delle tribù rivali più espansivo che orgiastico. Oppure i violini straniti che aprono Il sacrificio punteggiati da legni ipnotici.

Finisce tutto e parte il bis: gli orchestrali si alzano in piedi e intonano, a cappella, l’Ave Maria dello stesso Igor Stravinskij con esiti che farebbero impallidire molti cori professionali. D’altronde per fare musica a questi livelli, cosa ben diversa dal suonare, bisogna essere musicisti a tutto tondo.

Successone.

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