23 ottobre 2018

Dal Verdi al Verdi: la Traviata passa da Trieste a Pordenone

"Oh, come son mutata" dice attonita Violetta guardando il fazzoletto imbrattato di sangue che stringe in mano. È il terzo atto e dopo un’ottima lettera – quanti soprani inciampano nella prosa! – Claudia Pavone indovina il momento più intenso della Traviata in scena al Verdi di Pordenone, allestimento fresco di laboratorio dell'omonimo teatro triestino, dove ha chiuso la stagione pochi mesi fa. Nel complesso è proprio il terzo atto il meglio riuscito di questa produzione, o quantomeno il più sorprendente e calibrato.

Foto Fabio Parenzan

Tradizionale nell'impianto, anche se postdatato rispetto al primo Ottocento da libretto, lo spettacolo di Giulio Ciabatti è lineare e pulito, racconta la storia in modo chiaro e lo fa strizzando un po’ l’occhio al suo pubblico, cioè quello triestino e giapponese (che lo vedrà in tournée il prossimo anno), che non ama troppo essere sorpreso. Pur in un contesto pensato per non turbare le oneste e ben create coscienze, non manca la cura per alcuni dettagli né, soprattutto, per la narrazione, che è sempre limpida e ben condotta.
È di stampo classico anche la recitazione dei personaggi, che funziona benissimo per protagonista e alcuni comprimari, bene per baritono e controscene e un po’ meno bene per tenore e coro, che soffrono di qualche eccesso di staticità.

Le scene di Italo Grassi tendono a un’oleografia vagamente liberty nei primi due atti mentre virano verso una scabra povertà nel terzo, che racconta la "prigionia" di una Violetta ostaggio della malattia e dello stigma sociale. Lei rinchiusa in quella scatola nera e vuota come un leone ferito in gabbia mentre là fuori il carnevale impazza. D’effetto!

Claudia Pavone è una Violetta più che convincente. La voce è leggera ma penetrante e corre bene in sala ad alta quota come in basso, le note ci sono tutte e sembrano anche piuttosto facili, ma soprattutto c’è Violetta. Le si crede; a quello che dice, a come si muove, alla figura nel complesso. Un pizzico di coraggio in più nelle dinamiche e nel buttare il cuore oltre l’ostacolo in quei momenti topici in cui Violetta deve mettersi a nudo e l’interpretazione della Pavone potrà davvero ambire ad imporsi.

L’Alfredo di Francesco Castoro ha uno strumento non privo di qualità: il timbro è fresco e piacevole, lo squillo non manca né mancano buone intenzioni musicali e interpretative. C'è ancora qualcosa da levigare nel controllo dell'emissione, che talvolta esce eccessivamente aperta o inciampa in qualche piccolo slittamento d’intonazione, ma soprattutto – questo è un consiglio non richiesto – c’è da rinfrescare un gusto nella recitazione e nel canto che guarda più al passato che al presente.

A Trieste e Pordenone si ricordano ottime prestazioni donizettiane e rossiniane di Filippo Polinelli: proprio su questo palco qualche tempo fa cantò un Don Bartolo di livello. Germont invece non fa ancora per lui. Nonostante la buona volontà e la ricerca di un canto sfumato e pesato sulla parola, il fiato scarseggia e la voce non risponde come dovrebbe, arretrando pericolosamente in gola appena la tessitura si inasprisce. Meglio aspettare ancora un poco.

È invece eccellente la Annina di Rinako Hara, che canta bene e recita meglio, così come si segnala per ricchezza dei mezzi la Flora di Ana Victória Pitts: è giovane e ha un bel vocione caldo, chissà che non possa ambire e parti più importanti.

Completano il cast, tra alti e bassi, Paolo Ciavarelli (Douphol), Dario Giorgelè (Marchese D’obigny), Francesco Musinu, che è un Dottor Grenvil particolarmente empatico, Alessandro Turri (Gastone), Dax Velenich (Giuseppe), Fumiyuki Kato (domestico) e Giuliano Pelizon, un commissionario.

Resta da dire di Fabrizio Maria Carminati che probabilmente è il migliore in campo. Il suo feeling con l'Orchestra del Verdi di Trieste, che infatti suona molto bene, è cosa nota, ma ciò che ad ogni prova sorprende di questo direttore è la pregnanza stilistica e la capacità di essere dentro alla partitura. Che si tratti di belcanto, di Verdi, Puccini o anche Čajkovskij, Carminati non sembra mai fuori posto né si adagia su una comoda routine. Forse sì, talvolta può eccedere nella timidezza dei volumi e mancargli la zampata del grande, ma c'è sempre un controllo delle sonorità e della qualità orchestrale, dei dettagli e del palco, da vero direttore d'opera. Inoltre, pur nella varietà di risorse, Carminati non ricerca mai il facile effetto né la sottolineatura, ma sa fare uscire il gesto musicale scritto nero su bianco traducendolo in teatro. Che i Puritani in arrivo a Trieste siano affar suo è un'ottima notizia (lo è di meno il cambio di regia recentemente annunciato, transeat).

Come accennato l’orchestra, che ormai conosce la Traviata anche capovolta, è decisamente in forma: leggera ma sempre timbrata, nitida, impeccabile negli interventi delle prime parti.

Ineccepibile il coro dello stesso teatro triestino, al solito preparato dalla brava Francesca Tosi.

Meritano infine una menzione i ballerini Guillermo Alan Berzins e Marijana Tanasković, che danno prova della propria arte durante i cori di zingarelle e mattadori.

Buon successo a fine spettacolo, con ripetute chiamate per tutto il cast.

Recensione pubblicata su OperaClick

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