Li abbiamo contati come Butterfly questi tre anni, tanto è durata l’assenza dell’opera dal palcoscenico del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, e l’attesa è stata ripagata da un Barbiere di Siviglia esotico. Esotico non nella sostanza, beninteso, quanto nell’insolita provenienza.
La nuova produzione del Teatro Verdi di Trieste infatti, che pure è prevista nella stagione lirica a fine inverno, proviene direttamente da Dubai, ove i complessi triestini hanno da poco inaugurato il teatro dell’opera. Rispetto alle recite negli Emirati l’allestimento è stato rimaneggiato e probabilmente, da qui a febbraio, qualche altra modifica ci sarà ancora, ma già allo stato attuale lo spettacolo funziona e convince, soprattutto nel secondo atto.
Giulio Ciabatti non ripensa il libretto, anzi, si inserisce nel filone dell’onesta tradizione ma lo fa con più di un merito: innanzitutto scansa sistematicamente certa comicità deteriore d’avanspettacolo che in simili spettacoli è merce comunissima e, non di meno, infonde una pregevole scorrevolezza all’azione. La recitazione non è trascendentale me è sempre ben condotta, soprattutto nelle scene d’insieme, e raggiunge i massimi livelli durante un temporale gestito con ottimo mestiere e fantasia. Qualche trovata inedita, come la tresca tra Berta e l’ufficiale, risulta piacevole e garbata.
Le scene cupe di Aurelio Barbato rendono bene il clima claustrofobico della “prigionia” di Rosina ma soffrono di una certa monotonia, restando pressoché invariate per l’intera durata dell’opera.
Domenico Balzani, Figaro, ha tanta voce, un’emissione sana e si destreggia con consumato mestiere sul palco. Si avverte però qualche limite stilistico sia nei recitativi, che spesso scivolano nel parlato, sia nel canto, meno morbido e cesellato di quanto si vorrebbe.
Aya Wakizono è una Rosina eccellente. La voce è bella, ampia, omogenea e viene manovrata con facilità quasi irridente: le agilità sono limpide e impeccabili, il registro acuto luminoso, il legato di alta scuola. Il personaggio è tratteggiato con convenzionalità ma c’è tutto e funziona alla perfezione.
Convince a metà il Conte d’Almaviva di Bogdan Mihai il quale alterna autentiche prodezze a tante problematicità. La voce è piccola di natura ma soprattutto dà sovente l’impressione di non essere sostenuta a sufficienza dal fiato, soprattutto nelle agilità che, per quanto ben dipanate, paiono spoggiate. Di contro c’è una pregevolissima morbidezza del canto nelle frasi più lunghe e legate, anche in zone scomode della tessitura. La sensazione insomma è che il tenore abbia una naturale predisposizione per affrontare il repertorio rossiniano e tutte le carte in regola per diventarne un affidabile interprete ma che la consapevolezza tecnica vada ulteriormente rifinita. C’è poi una certa leziosità “barocca” nel porgere e nel recitare che alla lunga risulta stucchevole. Spiace il sacrificio del Rondò.
Filippo Polinelli è invece un Don Bartolo straordinario. Davvero non è comune ascoltare una parte di buffo risolta con tale raffinatezza e ricchezza di inflessioni, scansando ogni effettaccio o cialtroneria per risolvere tutto nel canto. La sensibilità con cui il baritono colora ogni parola e la pulizia della recitazione sono un ottimo punto di partenza per dare vita a un Bartolo che è al contempo pavido e meschino, spocchioso ma in fondo non privo di una certa bonomia e che, proprio perché non ricerca la risata ad ogni costo, risulta estremamente divertente e sottile. La voce del baritono è poi di pregevolissima grana e la musicalità eccellente.
Il Don Basilio di Giorgio Giuseppini pare una maschera della commedia dell’arte in cui, al di sotto della superficie comica, erompe qualcosa di inquietante. La vocalità, benché matura, è ancora ampia e ben sostenuta in ogni registro.
Maria Cioppi è una Berta convincente e simpatica.
Molto bravo Giuliano Pelizon, Fiorello. Hektor Leka è un ufficiale vocalmente solido e disinvolto sulla scena.
Francesco Quattrocchi, sul podio di un’Orchestra del Verdi di Trieste in ottima forma, infonde buon passo alla narrazione e concerta con mestiere, prestando la necessaria attenzione agli equilibri interni e al palco. Le uniche riserve riguardano un’eccessiva prudenza nelle dinamiche, che risultano appiattite (sgonfiando così parte dell’effetto nei crescendo), e la tendenza a calcare la mano in certi punti, eccedendo nelle sonorità.
Si comporta benissimo il coro del Verdi per il debutto della sua nuova maestra Francesca Tosi, fresca di nomina alla successione di Fulvio Fogliazza.
Calorosa l’accoglienza del pubblico pordenonese.
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