1 dicembre 2012

Intervista a Cesare Lievi

Incontriamo Cesare Lievi nel suo ufficio presso il Teatro Nuovo Giovanni da Udine dove ricopre il ruolo di sovrintendente dal 2010. Regista, drammaturgo, scrittore, una carriera internazionale costruita nei principali teatri del mondo, dal Metropolitan di New York alla Scala passando per Berlino, Parigi, Zurigo. Ci parla di teatro, di musica, di quanto sia drammatica la situazione culturale nel nostro paese.


Maestro Lievi, come valuta la situazione culturale italiana?

In Italia c’è un grave problema in materia di cultura che ha profonde radici nel passato. Da un lato va considerata la presenza storicamente ingombrante della Chiesa che per secoli ha gestito e influenzato la cultura, dall’altro c’è un problema di volontà politica, non c’è mai stato un disegno strutturato che programmasse la modalità di sviluppo della cultura. Basterebbe guardarci attorno: la Germania si è denazificata grazie alla cultura e lo stesso è successo per l’uscita dal ’68, superato grazie allo spostamento della tensione dal fronte politico a quello culturale. Se si deve uccidere il Re è meglio ucciderlo simbolicamente, in un teatro.

A cosa attribuisce le ragioni di questo ritardo italiano?

Il teatro dovrebbe essere il luogo della discussione, della libertà espressiva, anche della follia. In Italia purtroppo questo non viene capito. Basta guardare la situazione del teatro operistico in cui il divario tra il nostro paese e l’estero è abissale. Non parlo tanto di qualità della realizzazione artistica quanto piuttosto dell’idea della funzione del teatro: in Italia il teatro d’opera è considerato un luogo di ritrovo, quasi un rito mondano, il pubblico non si interroga molto su cosa stia osservando. Spesso si va ancora a teatro per pura vociomania, prestando più attenzione ai minimi dettagli vocali piuttosto che per interrogarsi sul significato drammatico dello spettacolo. C’è questa tradizione fortemente radicata in Italia del teatro inteso come mero divertimento mentre il teatro moderno non è solo questo, è un ripensamento critico della realtà. Un mio maestro diceva che dal pubblico di un teatro si capisce il carattere di un paese, e purtroppo il pubblico italiano ci suggerisce quale sia la situazione culturale del nostro paese. Si tratta di un problema antico, manca la tradizione in questo senso.

Non sembra ottimista per il futuro del teatro in Italia.

Non lo sono. Temo che il teatro in Italia stia vivendo un progressivo ed inarrestabile declino e credo si tratti di un processo irreversibile. I fondi sono sempre più esigui, i teatri stabili – che sono la colonna vertebrale del sistema – sono sull’orlo del fallimento e producono sempre meno, le compagnie private stanno scomparendo. Non è un caso che in Italia si sia sviluppato il teatro narrazione, forma che in altri paesi non ha preso piede. Un artista come Paolini, bravissimo, all’estero probabilmente non avrebbe avuto modo di imporsi con tanta risonanza.
Poi c’è un problema di mancanza di pubblico, il modo di fare italiano non ha creato pubblico. È importante riuscire a coinvolgere i giovani, portarli a teatro, per questo siamo fortemente impegnati con le scuole. Quando ho iniziato a lavorare a Brescia gli abbonamenti-scuola erano 83, dopo 14 anni erano diventati 1400, adesso sono 1600 e sono la salvezza del teatro, presente e soprattutto futura. È meglio perdere abbonati e acquistare pubblico giovane, questo dovrebbero capire i dirigenti dei teatri italiani. L’abbonamento non deve essere l’elemento fondante del teatro, non lo è più. Generalmente gli abbonati sono persone mature che hanno una disponibilità economica e di tempo libero che i giovani, gli studenti – il pubblico di domani insomma – non hanno. Il pubblico giovane sceglie spettacoli mirati piuttosto che l’abbonamento. Inoltre c’è una notevole difficoltà a raggiungere i giovani da un punto di vista “propagandistico”. Il teatro è visto nel nostro paese come una struttura vecchia e polverosa che tende ad allontanare piuttosto che attirare il pubblico nuovo. In questi anni però abbiamo già fatto molti passi avanti nello svecchiamento del pubblico.

Immagino sia difficile lavorare in Italia per un regista

Lo è. Nei paesi di lingua tedesca ci sono 180 teatri stabili che lavorano per sei giorni a settimana 11 mesi l’anno, c’è una varietà di offerta e una ricchezza di opportunità che da noi manca. La struttura del teatro tedesco è completamente diversa: non esiste il consiglio di amministrazione, sono presenti figure a noi completamente sconosciute come ad esempio il dramaturg. Inoltre la professionalità all’estero è nettamente superiore perché diversa è l’educazione alla professione teatrale. Da noi c’è molta volontà che spesso si risolve nell’improvvisazione mentre manca la competenza specifica e la conoscenza di quanto avviene nel resto del mondo. Cosa significhi teatro, recitare, cosa voglia dire “fare cultura” è qualcosa di oscuro in Italia mentre dovrebbe essere terreno comune, il substrato culturale da cui partire.
Spesso ai registi italiani manca la capacità di lavorare sul rapporto tra i soggetti in scena, la legge della reciprocità: a teatro è chi sta zitto che determina chi l’azione di chi parla. Ed è così che il teatro riesce ad essere vivo, vincendo la concorrenza di altre forme di comunicazione più immediate come il cinema o i videoclip.

Il discorso circa il pubblico italiano può essere esteso all’ambiente udinese?

È difficile fare un discorso in generale ma devo ammettere che il primo contatto con la realtà udinese è stato spiazzante. Avevo presentato “Giorni felici” di Samuel Beckett con Adriana Asti e la regia di Bob Wilson, convinto di portare in città un grande evento. La risposta fu tiepida, parte del pubblico abbandonò la sala al primo intervallo e io fui fortemente contestato per la scelta. Ovviamente tra quel pubblico c’era anche chi aveva molto apprezzato la proposta ma non era certo la maggioranza. Il pubblico udinese è molto eterogeneo: ce n’è di raffinato, curioso e colto e c’è una parte che preferisce l’intrattenimento al teatro, un pubblico molto legato all’idea televisiva di spettacolo.

Crede che ciò possa dipendere dal fatto che a Udine non c’è una tradizione antica di teatro in città, lo stesso GdU ha una storia molto recente?

Sì, dipende anche da questo ma soprattutto dal fatto che non c’è tradizione di un teatro stabile. Questo aspetto è molto strano perché la regione Friuli ha sempre investito molti fondi nella cultura. Se dovessimo analizzare l’effettiva resa dell’investimento culturale qui in regione troveremmo un rapporto estremamente sbilanciato tra fondi spesi e risultati.

In tal senso, crede che il suo compito di sovrintendente sia quello di puntare ad assecondare le richieste di questa fetta di pubblico meno esigente o puntare piuttosto alla qualità dell’offerta, a costo di scontentare qualcuno?

Io sono stato chiamato a Udine dall’assessore Reitani e dal sindaco Honsell proprio con il progetto di ampliare il programma puntando sulla qualità e per iniziare a produrre spettacoli. Purtroppo in Italia l’idea di produrre spettacoli è poco diffusa e confinata alle città che ospitano teatri stabili. Nella gran parte delle città il teatro si riduce ad essere un contenitore che ospita produzioni esterne, atteggiamento che per quanto positivo non serve alla crescita culturale della città.

Tornando all’assunto secondo cui dal pubblico di un teatro si può percepire il clima culturale di un paese, il problema della superficialità nella costruzione dei rapporti tra soggetti può essere estesa in generale alla popolazione italiana o è un problema prettamente teatrale?

La mancanza di dialogo è un difetto italiano. Posso parlare dei tedeschi che conosco meglio: loro quando parlano cercano di esprimere un pensiero in modo chiaro, è la costruzione logica della frase che impone questo tipo di approccio. Spesso l’italiano, quando parla, non si preoccupa della chiarezza ma piuttosto di convincere l’interlocutore ed a tale scopo usa tutti gli espedienti possibili, gesticola, si dimena. Dirò che l’eccessiva gesticolazione è un difetto che rimprovero anche a molti attori nostrani. Ad oggi, purtroppo, molti italiani – e mi riferisco soprattutto ai discorsi di certi esponenti della classe dirigente – neppure si preoccupano più di convincere il pubblico quanto piuttosto di fare impressione, ed è una cosa molto triste.

Crede possa dipendere da una deriva culturale collegata ad un assorbimento del modo di comunicare televisivo?

Sì, senz’altro, però su un nucleo già fecondo. Altrove questa preoccupazione di impressionare l’altro non c’è.

Quali progetti porterà in futuro al Giovanni da Udine?

A gennaio curerò la regia di “La Fine dell’Inizio”, testo molto interessante di Sean O’Casey, autore irlandese molto importante ma poco conosciuto in Italia . È apparentemente una farsa, molto comica ma analizzata attentamente parla di cose molto serie e io cercherò di dimostrare come “La fine dell’inizio” sia in realtà una clownerie teologico-filosofica.

Nel teatro tedesco è fondamentale la figura del dramaturg di cui parlava poc’anzi. Ci può brevemente spiegare il ruolo di questa professione?

Tutti i teatri tedeschi hanno un dramaturg che si occupa sia di opera che di prosa. Costui collabora con il sovrintendente nella scelta delle opere da fare in base all’ensemble che si ha a disposizione, fa il casting con il regista in base all’impostazione drammaturgica che si intende perseguire, valuta il konzept e lo relaziona alla storia registica, lavora alla scelta e alla manipolazione del testo (eventuali tagli, quale traduzione adottare), sceglie la letteratura critica. Inoltre il dramaturg segue le prove mediando tra le varie professionalità coinvolte nel progetto. Io avevo tentato di portare a Brescia un dramaturg e ci riuscii, per ben sei anni. Purtroppo il sistema di produzione italiano è refrattario a questo tipo di novità, i registi non lo accettavano e così dovetti rinunciare al progetto.

Quali progetti ha per il futuro Cesare Lievi?

Nell’aprile 2014 farò il Cavaliere della Rosa di Strauss a Manaus in Brasile, nel teatro di Fritzcarraldo, il famoso commerciante melomane ritratto nel film di Herzog che a fine ottocento fece costruire un teatro in mezzo all’Amazzonia. Questo teatro nella primavera di ogni anno ospita un festival operistico.

Parlando di Der Rosenkavalier, chi è la Marescialla secondo lei?

La Marescialla è una donna ritratta nell’attimo in cui si accorge che le vita sta facendo una curva, quando la giovinezza cede il passo alla fase declinante. Il momento più importante dell’opera è quello in cui lei prende consapevolezza di essere invecchiata. Il rapporto con Octavian è indicativo: inizialmente il piacere della Marescialla sta nel fatto che il giovane veda in lei la vita e ciò la fa sentire giovane e viva. Ma quando la vede per la prima volta capisce che tutto è finito, Sophie non è una sua immagine riflessa, è diversa, capisce che la giovinezza per lei è passata e che questa appartiene ormai ad altri. La grandezza della Marescialla sta in questa consapevolezza e nel modo in cui tale presa d’atto si risolve nel congedo finale.

Dopo oltre un’ora di conversazione intensa e piacevole lasciamo Cesare Lievi ai suoi impegni con l’augurio di ritrovarlo alla direzione del teatro dopo la scadenza – ahinoi prossima – del suo mandato.

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