22 febbraio 2015

Il Don Pasquale di Donizetti al Teatro La Fenice di Venezia

Se c’è una cosa che un regista d’opera dovrebbe essere capace di fare, questa è la costruzione dell’azione scenica sulla musica, sfruttandone accenti ed inflessioni, assecondandone la narrazione. Dire che tale abilità sia minoritaria tra chi si occupa di teatro musicale, almeno nel nostro paese, è un garbato eufemismo: è tristemente noto che non pochi intendano la regia quale sinonimo di scenografia, tuttalpiù come pedissequo svolgimento delle didascalie del libretto. Il Don Pasquale di Italo Nunziata, in scena al Teatro La Fenice, è una piacevolissima eccezione alla regola: uno spettacolo fresco e scorrevole, in cui il sorriso non cede mai il passo al riso, che lascia emergere le sottili malignità, le malinconie, le illusioni che della commedia donizettiana sono ingredienti fondamentali. Il tutto partendo dalla partitura: ogni gesto è pensato sulla musica, non relegata dunque a colonna sonora dell’azione ma, com’è giusto che sia, elemento narrativo primario. Scene e costumi di Pasquale Grossi sono curati, esteticamente gradevoli e funzionali al disegno; la vicenda è ambientata nella prima metà del XX secolo, Don Pasquale è un imprenditore che se la cava bene con gli affari e male con le donne, Ernesto e Norina paiono usciti da una commedia di Wilder. L’approccio al lavoro è profondo ma non serioso, il taglio drammaturgico rinuncia alla comicità più esteriore senza essere pedante.



Roberto Scandiuzzi ha poco in comune con i Pasquale di tradizione, nel bene e nel male: la voce è sontuosa per timbro ed ampiezza, il volume importante, tuttavia è difficile non avvertire una certa estraneità stilistica al canto donizettiano. La tendenza a legare le frasi anche laddove sarebbe richiesta una scansione ritmica bruciante (come nel sillabato) e ad omogeneizzare il suono in una rotondità senz’altro fondamentale in altro repertorio ma qui poco incisiva, privano la performance di quella varietà di colori ed accenti che ne consentirebbero il salto di qualità. Leggerina ma frizzante e stilisticamente a posto la Norina di Barbara Bargnesi, la quale è anche una notevole attrice, il che aiuta non poco l’economia dello spettacolo. 

Encomiabile Davide Luciano nei panni del Dottor Malatesta per padronanza tecnica e stilistica nonché per bellezza dello strumento; non è imprudente prevedere una brillante carriera per il giovane cantante se saprà continuare su questa strada. Delude invece Alessandro Scotto Di Luzio, in difficoltà nella scomoda tessitura di Ernesto; la voce ha timbro di prima qualità nel medium ma tende a perdere appoggio e conseguentemente intonazione già dal passaggio. Lodevole il notaro di Matteo Ferrara che pulisce la piccola parte delle stratificazioni di vezzi e macchiettismi a cui in pochi sanno rinunciare.

Omer Meir Wellber, che ormai alligna sul podio del teatro veneziano, concerta con buon passo teatrale, sostenendo il palco e curando bene l’accompagnamento al canto. Non c’è al momento, nel suo Donizetti, la profondità d’analisi che abbiamo apprezzato in Verdi, ma nemmeno gli scivoloni belliniani. Una direzione efficace, con ottimi momenti (secondo atto) e qualche pesantezza di troppo qua e là; l’orchestra ha visto serate migliori. 

Bene il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Paolo Locatelli
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