La ricchezza di colori, inflessioni e sfumature, la sottigliezza nella gestione ritmica e cromatica di ogni singolo inciso; se è vero che il grande artista si rivela nel dettaglio infinitamente piccolo, non possiamo che ritenere tale Arcadi Volodos. Né sarebbe tuttavia onesto ridurre ad un esercizio di calligrafia e vivisezione della partitura l'interpretazione musicale del pianista, che vive innanzitutto di compiutezza ed organicità rare. La tecnica è di prim'ordine, prodigiosa per controllo e funambolismo quanto per la qualità del suono (pulizia, legato, bellezza del colore in ogni escursione dinamica, equilibrio), ed è al servizio di un interprete se possibile ancor più sensibile del virtuoso.
Ormai non fa quasi più notizia dare conto di esecuzioni di primissimo livello al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, tale è il pregio dell'offerta musicale della stagione in corso come di quelle recentemente trascorse. Risulta quindi ancor più sorprendente ravvisare, nella prova di Arcadi Volodos, i tratti dell'assoluta eccezionalità. Pianista russo dalla formazione peculiare, virtuoso e tecnico dello strumento con pochi paragoni, eccentrico nelle scelte e nel percorso artistico, Arcadi Volodos da quasi vent'anni è ospite fisso delle principali istituzioni musicali del mondo ove ha suonato a fianco delle maggiori orchestre, con maestri tra i più apprezzati sulla scena internazionale.
Aggiungevano ulteriore sale al concerto udinese i brani in programma, capisaldi della produzione di Brahms e Schubert, autori in cui è facilissimo essere banali o approssimativi quando non completamente vuoti di contenuti.
La partenza, con la trascrizione pianistica del sestetto per archi (Tema e variazioni in re min.-magg. dall’Andante del Sestetto per archi op. 18b) di Johannes Brahms, dopo un breve assestamento, sorprendeva per la chiarezza espositiva della scrittura musicale, con ogni voce armonica distinguibile e perfettamente bilanciata con le altre.
I Sei Pezzi (Klavierstücke) per pianoforte, op.118 di Johannes Brahms erano perfettamente distinti per carattere ed umore, pur non mancando una consequenzialità nell'idea interpretativa che desse compattezza all'opera. Una lettura giocata pressoché esclusivamente sul colore e sulle sfumature ritmiche, senza inciampare in sottolineature plateali o effetti a buon mercato ma pensando ogni singola frase e il suo significato all'interno della composizione. L'interpretazione di Volodos pareva avvicinare Brahms al novecento, scovando in questo lavoro relativamente tardo (1892) le connessioni con l'espressionismo incipiente piuttosto che con il romanticismo: ne scaturiva una lettura dall'impronta quasi jazzistica, mobile e contrastata senza essere frammentaria, lucida e trasparente ma per nulla fredda.
L'esecuzione della Sonata n. 21 in si bemolle maggiore D. 960 di Franz Schubert è stata - senza timore di sembrare imprudente nel giudizio - eccezionale. Al di là dei meriti prettamente tecnici, su cui sarebbe pleonastico ritornare, colpiva la compiutezza interpretativa dell'esecuzione: il fraseggio, la cura per il colore e le dinamiche e, soprattutto, la coerenza delle scelte agogiche, mai compiaciute o esteriori ma sempre inserite in un disegno, davano alla sonata una spontaneità ed una naturalezza commoventi. I temi che caratterizzano i movimenti vivevano, ad ogni ripresa, di nuove nuances, i passaggi più insidiosi erano risolti con fluidità tale da lasciare sbalorditi.
Il concerto è culminato in un trionfo personale per Volodos, accolto da interminabili applausi che sono stati generosamente ricompensati con quattro bis (Bach, Schumann e de Falla).
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