12 ottobre 2014

Paese del Sorriso a Trieste

Che ruolo ricopre l’operetta nel teatro contemporaneo? A differenza del teatro lirico che, col passare del tempo, ha trovato un proprio linguaggio per adattarsi al mutare della sensibilità del pubblico, l’operetta rimane ancora saldamente incollata ad un’estetica d’altri tempi di difficile inquadramento al gusto odierno. Quando persino un Michieletto, massimo campione italiano della contemporaneità dell’opera, non centra il bersaglio, sorge spontanea la domanda sul margine di manovra di regista ed interpreti per risolvere questo genere teatrale peculiare e tecnicamente molto insidioso. Sicuramente le generalizzazioni sono sempre rischiose, tuttavia lo stile “misto”, la voluta frivolezza, la comicità abbondantemente superata, mettono l’interprete in serie difficoltà: il rischio, come avviene per l’opera buffa, di scadere nella comicità d’avanspettacolo (che pure a qualcuno piace) o viceversa di perdere la dimensione leggera, cercando di caricare di eccessivi significati lavori relativamente poco pretenziosi sotto il profilo intellettuale, è tutt’altro che uno spettro remoto.

Il paese del sorriso, lavoro di Franz Lehar tra i più noti ed amati, tornava al Teatro Verdi di Trieste per rinsaldare quel rapporto privilegiato che la città ha sempre avuto con l’operetta, ripristinando, benché con un solo titolo in programma, lo storico festival ormai sospeso da diverse stagioni.



L’allestimento è quello di Damiano Michieletto già transitato sul palcoscenico del Verdi nel 2008. Si tratta di uno spettacolo complessivamente gradevole, soprattutto per merito delle scene di Paolo Fantin (fenomenale collaboratore del più noto regista): un’installazione emisferica domina la metà destra dello spazio scenico, assumendo via via diverse sembianze e fungendo da unico ornamento di una scenografia altrimenti spoglia. In questo ambiente statico prendeva corpo una regia relativamente ispirata: non si può certo dire che mancassero la cura o l’attenzione per il dettaglio (tutt’altro, anche le controscene erano curatissime, ogni gesto calibrato con attenzione), ciò che invece lasciava diverse riserve era il gusto della stessa e la sua ispirazione a cliché appartenenti ad un modo di fare teatro che mostra ormai più di qualche ruga. Il problema non sta solamente nella risoluzione del lato comico dell’opera ma anche nella sua coniugazione con quei risvolti più profondi e dolenti, qui talvolta negletti ed altre volte eccessivamente sottolinati; lo scoglio principale dell’operetta è questo: la risoluzione organica di stili e registri comunicativi differenti e distanti con coerenza e compattezza, sia nello spirito (comico e malinconico), sia tecnicamente (l’unione di prosa e canto) ed in questo falliva lo spettacolo triestino. 

Come accennato la fusione tra parti recitate e cantate appariva, anche per limiti degli interpreti, particolarmente difficoltosa: Ekaterina Bakanova ad esempio, che è un’ottima cantante ed attrice, non trovava certo valorizzazione in una parte che la costringe a cimentarsi in una recitazione prosaica dalla dizione impacciata, così come il tenore Alessandro Scotto di Luzio, poco incisivo e convincente nel parlato. Le parti cantate erano risolte viceversa molto bene, soprattutto per quanto riguarda il soprano, ma nel complesso la prova non convinceva completamente.
Al loro fianco Ilaria Zanetti (Mi), Andrea Binetti (Gustav) e l’eunuco di Simone Faucci, pur con abilità canore meno rifinite, si dimostravano in possesso di una padronanza tecnica idiomatica ben più convincente che li rendeva capaci di affrontare il palco con maggiore cognizione stilistica.
Sul podio dell’orchestra del Verdi Antonino Fogliani guidava con sostanziale correttezza, qualche eccesso di volume e buona cura per il suono.
A fine spettacolo buona accoglienza del non foltissimo pubblico presente in sala.

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