12 ottobre 2014

Il Don Giovanni di Michieletto torna alla Fenice

In tempi di grande difficoltà per la maggior parte delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane, il Teatro la Fenice di Venezia pare un’oasi di pace e serenità. Cinque produzioni in due mesi, qualità sempre soddisfacente e abbondanza di pubblico. Dopo le riprese di Trovatore, Traviata e Inganno Felice è la volta di Don Giovanni, capolavoro mozartiano riletto nell’allestimento capolavoro – si parva licet – di Damiano Michieletto. Piaceva all’esordio, continuava a piacere alle riprese successive ed ancora oggi, giunto alla quarta riproposizione, lo spettacolo dell'(ormai ex) enfant prodige del teatro operistico italiano riscuote un successo indiscusso. Ovviamente le voci critiche non sono mai mancate e continuano a pigolare per ogni libertà registica o presunto tradimento del verbo mozartiano, disconoscendo ogni conquista del teatro operistico contemporaneo o bollandola come perversione del gusto. Lo spettacolo di Michieletto invece funziona, è coerente, agile e intellettualmente brillante. 



Ribadiamo quanto scritto in precedenza:

“Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, inaugurata da questo stesso titolo, ormai diversi anni fa, con un fortunatissimo e pluripremiato allestimento (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin).
L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo settecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro, se non personificazione dell’inconscio, il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.”

Protagonista era Alessio Arduini, cantante dalla voce non onnipotente ma di bel colore, omogenea su tutta le gamma ed adoperata con gusto e cognizione stilistica. Il baritono si rendeva autore di una prova assolutamente convincente per personalità ed aderenza al disegno registico. Al suo fianco il Leporello istrionico e travolgente di Alex Esposito; al di là dell’indiscussa classe vocale, il basso ha un magnetismo che cattura e, pur con qualche eccesso nel finale secondo, sapeva guadagnarsi l’incondizionata simpatia del pubblico.

La Donna Anna di Jessica Pratt convinceva per intonazione e pulizia di emissione mentre Maria Pia Piscitelli veniva a capo della scrittura di Elvira non senza difficoltà nelle agilità e negli acuti.
Eccellente la prova di Juan Francisco Gatell, Don Ottavio dalla linea di canto elegantissima, espressivo nel fraseggio e disinvolto in scena. La commovente aria dalla sua pace, per meriti condivisi con l’accompagnamento di Stefano Montanari, è stata di gran lunga il momento musicalmente più riuscito della serata.
Corretti Caterina di Tonno e William Corrò, Zerlina e Masetto; imponente ma poco rifinito il Commendatore di Attila Jun.

Esaltante la concertazione di Stefano Montanari, maestro di estrazione barocca capace di infondere ritmo e leggerezza alla trama orchestrale. La direzione tesa e travolgente di Montanari non sacrificava alla velocità né la ricchezza di dettagli né i colori, scovando in partitura, in particolar modo nell’accompagnamento alle arie, il giusto approfondimento delle ragioni psicologiche dei personaggi. L’ottima Roberta Ferrari, al cembalo, seguiva con garbo, fantasia ed inappuntabile senso del ritmo.

Paolo Locatelli


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