20 giugno 2014

La Traviata degli specchi a Udine

A volte, a dispetto di ogni maliziosa previsione, può succedere che la semplice ripresa di uno spettacolo andato in scena senza destare particolari entusiasmi circa due mesi prima, in un altro teatro (con altro cast ed altra bacchetta), non solo superi di gran lunga il precedente e le aspettative, ma riesca persino a raggiungere livelli di eccellenza, se valutato in relazione al contesto in cui nasce.
Lo spettacolo in questione è la famigerata “Traviata degli specchi”, già transitata sul palco del Teatro Verdi di Trieste ad inizio primavera ed ora ripresa, purtroppo per una sola recita, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine.


Lo spettacolo nacque nel 1992, pensato per l'ampio spazio dello Sferisferio di Macerata da Henning Brockhaus e Josef Svoboda i quali si giovarono di una semplice ma efficace idea: uno specchio inclinato funge contemporaneamente da fondale ed “amplificatore dell'azione”, riflettendo verso il pubblico, oltre alle movenze degli artisti impegnati in scena, dei tappeti su cui è dipinta la scenografia. Certo l'allestimento ha ormai più di vent'anni e per il gusto odierno mostra qualche ruga, sia nell'impostazione bozzettistica delle tele stesse, sia per quanto riguarda alcune scelte esegetiche: il finale dell'opera, con la verticalizzazione dello specchio a riflettere il pubblico nella sala completamente illuminata, rendendolo parte integrante della società borghese che ripudia Violetta, è un'idea che appare ormai poco originale e piuttosto moralistica.
Uno spettacolo di questo genere (esteticamente gradevole, ma ordinario sotto il profilo dei contenuti, oltre che lontano da sperimentazioni drammaturgiche o ribaltamenti di prospettiva), se affidato ad artisti poco incisivi può lasciare indifferenti, ma può avere ben altro esito se si avvale di personalità interpretative forti, lasciate totalmente libere di esprimersi.

Se la Traviata udinese è stata un trionfo - e trionfo è stato davvero: capita di rado di assistere ad un successo tanto entusiastico e convinto - il merito va soprattutto ad Ekaterina Bakanova, la quale si è dimostrata un'eccellente Violetta. Non c'è gesto o parola che venga sprecato, tutto, anche il dettaglio più minuscolo, trova la giusta illuminazione sia sotto il profilo musicale (il fraseggio curatissimo ed espressivo, la ricchezza di colori, l'impeccabile musicalità), sia nella recitazione. La Bakanova non ha voce di straordinaria bellezza, né tecnica da prima della classe , ma sa costruire un personaggio completo ed assolutamente credibile, ricco di sfumature psicologiche mai plateali o sovraccaricate: la Violetta di Ekaterina Bakanova si sviluppa organicamente seguendo una parabola definita in cui l'amore si pone come strumento di liberazione e riscatto dal clima civettuolo e posticcio dei salotti parigini. Liberazione che appare evidente in quel “o gioia ch'io non conosco” gridato al mondo spogliandosi della parrucca, vera e propria maschera sociale, ma che, com'è noto, è destinata a rivelarsi una spietata illusione. Per questa Violetta l'amore di Alfredo non è l'occasione di cambiare vita ma la possibilità di provare ad essere se stessa sino in fondo anziché quel “prodotto” della società che era stata fino ad allora. In quest'ottica il distacco finale appare ancor più doloroso e l'abbraccio al contempo disperato e terrorizzato con cui stringe Alfredo durante un “Parigi, o cara” che diventa quasi un ipnotico processo di autosuggestione, ne è forse il momento culminante. Alla luce di tutto ciò paiono davvero macchioline minuscole il vibratino stretto che affligge gli estremi acuti ed alcune imperfezioni d'intonazione nell'aria del terzo atto, cesellata peraltro con ottimo fraseggio e suggestive dinamiche, e nella cabaletta “Sempre libera”.

Al suo fianco si disimpegnava piuttosto bene Alessandro Scotto di Luzio nei panni di Alfredo. Il tenore ha voce di bel timbro, fresco ed uniforme, il volume è modesto ma sufficiente ad imporsi nell'ampia sala del teatro udinese. La prova del cantante piaceva sia sotto il profilo musicale, correttamente svolto, sia per la presenza, senz'altro avvalorata dalla bella e giovane figura.
A dispetto di un'emissione che potrebbe far storcere il naso ai vociomani più intransigenti, il baritono Angelo Veccia disegnava un Giorgio Germont convincente sia per l'imponenza del mezzo, sia per la ricchezza di sfumature con cui rifiniva il canto. Il Germont di Veccia appariva spogliato di ogni traccia di meschinità o cinismo, rimanendo, benché severo e rigido, profondamente paterno.

Accanto ai tre interpreti principali ogni altro solista compitava diligentemente la propria parte: buona la prova di Letizia Del Magro nei panni di Flora, impeccabili la Annina di Anna Bordignon, il Gastone di Alessandro D'Acrissa, il Barone Douphol di Christian Starinieri. Al pari positive le prove di Francesco Musinu (Dottor Grenvil), Dario Giorgelè (Marchese D'Obigny), All'altezza della situazione anche tutti gli altri.

All'ottima riuscita dello spettacolo contribuiva in parte sostanziale il podio: convinceva senza riserve la direzione di Paolo J. Carbone il quale non solo sapeva guidare l'Orchestra del Teatro Verdi di Trieste (in forma smagliante per precisione e bellezza di suono) senza sbavature e con la massima attenzione al palcoscenico, pur senza sottometterne il ruolo alle esigenze del canto, ma si dimostrava soprattutto interprete sensibile e maturo, capace di caratterizzare un capolavoro tra i più frequentati e mortificati dalla routine, imprimendovi una propria lettura chiara ed originale. Ad un primo atto brillante e salottiero, incalzante pur senza giovarsi di tempi frenetici o dinamiche travolgenti, seguiva un duettone connotato di dolore sordo in cui l'orchestra si poneva come specchio fedele della sofferenza taciuta di Violetta; la festa da Flora assumeva una caratterizzazione affatto inedita laddove il “largo” prescritto per il concertato finale, staccato con un tempo più rapido e rigido di quanto si è abituati ad ascoltare, diveniva un inarrestabile precipizio verso la tragedia, piuttosto che una lamentosa meditazione sui rimorsi. Ciò detto il vero gioiello della recita è stato il terzo atto, complice una Bakanova trasfigurata nell'aspetto, sorretta da un'orchestra felpata che, sin dal preludio, trovava colori soffusi e delicati che si facevano via via più cupi e drammatici fino all'esplosione finale, rabbiosa e lacerante. Insomma una prova assolutamente maiuscola dell'orchestra e di un giovane direttore che speriamo di poter ritrovare presto alla guida della compagine triestina. Al pari impeccabile il Coro del Verdi guidato dal maestro Paolo Vero.

Come accennato, a fine spettacolo, successo trionfale per l'intero cast ed in particolar modo per la protagonista, con ripetute chiamate e prolungati applausi sedati soltanto dalla calata del sipario.

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