Se c'è un merito che va sempre riconosciuto alle grandi personalità dell'arte, particolarmente in ambito musicale, questo è la capacità di segnare percorsi inediti, cercare evoluzioni del linguaggio che consentano alla propria creatività di esprimersi lasciando un segno profondo nella storia. Non c'è dubbio che, in contesti diversi e per diverse ragioni, sia Fryderyk Chopin che Antonín Dvořák abbiano innovato profondamente il mondo musicale, esplorando soluzioni melodiche inedite in ambito pianistico il primo (molto meno sul piano orchestrale), mitigando la lezione brahmsiana alla luce delle recenti conquiste armoniche e stilistiche e della propria formazione culturale il secondo. Discorso non molto diverso potrebbe essere fatto per Bedřich Smetana che, pur godendo di fama minore e di una minore frequentazione, seppe trovare la propria cifra distintiva in un carattere per così dire “etnico” della musica, elaborando uno stile nazionale che avrebbe funto da modello per Dvořák stesso.
Per la stagione musicale, il Teatro Nuovo Giovanni da Udine proponeva un concerto della Česká Filharmonie, guidata dal suo direttore principale Jiří Belohlávek, incentrato su un repertorio ottocentesco che non sarebbe scorretto inquadrare nel romanticismo, pur offrendone tre facce distanti nel tempo e nel gusto, che ha ottenuto un ottimo successo di pubblico.
La Moldava, poema sinfonico tratto dal ciclo Mà Vlast (la mia patria) di Bedřich Smetana, metteva subito in evidenza la duttilità dell'orchestra, la sintonia con il podio, i pregi e i lievi difetti (soprattutto tra i legni) che avrebbero trovato conferma nel corso del concerto. Dopo un inizio incerto dei flauti, la morbidezza dei violini e lo splendore degli ottoni davano prova di una compagine idiomatica, perfettamente calata nel contesto stilistico affrontato.
Il Concerto n. 2 op. 21 per pianoforte e orchestra di Fryderyk Chopin aveva per protagonista il pianista Nikolai Lugansky, davvero ammirevole per fluidità e tocco – tacendo della tecnica impeccabile (assenti o impercettibili gli errori) – capace di risolvere la scrittura chopeniana smussando i languori e certo esibizionismo con gusto sobrio e un'espressività incisiva, lontanissima dall'esteriorità che capita spesso di ascoltare in questo repertorio. Colpiva l'assenza di maniera, la naturalezza dello svolgimento sia nei fraseggi che nella delicatezza dei colori.
Complessivamente molto buona, con lievi riserve, la prova orchestrale nella Sinfonia n.8 in sol maggiore, op. 88 di Antonín Dvořák. Jiří Belohlávek guidava l'orchestra con solido mestiere, risolvendo le esigenze tecniche senza aggiungervi molto di personale. Il suono orchestrale era pulito ed avvolgente, gli archi caldi e precisi mentre i fiati evidenziano qualche imprecisione tecnica ed una perfettibile qualità di suono. Il bel colore orchestrale si perdeva leggermente nei forti, caratterizzati da eccessiva compattezza, peccato comune nelle orchestre sinfoniche con un rapporto nettamente sbilanciato in favore degli archi.
Il concerto di Chopin era risolto al meglio, al netto del ruolo affatto marginale cui l'orchestra è relegata, mantenendo quella posizione defilata che consente al solista di esprimere la propria idea senza sovrastarlo o forzarlo.
In Smetana e Dvořák si apprezzava l'indubbia confidenza dell'orchestra con il repertorio, il colore specifico e la pertinenza stilistica nonché la precisione musicale e tecnica. Un'esecuzione di gusto e temperamento tipicamente est europeo in cui si è tuttavia sentita la mancanza di una bacchetta più audace nelle suggestioni ritmiche e dinamiche: lasciavano alcune riserve la rigidità dei tempi e l'eccessiva pesantezza dei pianissimi.
A fine concerto accoglienza entusiastica del pubblico in sala, omaggiato dalla Filarmonica Ceca con due bis.
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