Il Teatro La Fenice fa le cose in grande, con una doppia inaugurazione affidata al maestro Chung. I titoli prescelti sono l'Otello verdiano e Tristan und Isolde di Wagner. Di seguito riporto le recensioni dei due spettacoli pubblicate su IlDiscorso.
Recensione – Otello è il precipizio di un uomo saldo e forte corrotto nell’intimo dall’ingiuria più atroce di tutte, il sospetto dell’ingiuria stessa. Una storia di drammi potenziali, evocati, vagamente immaginati ma irreali, di situazioni nascoste dalle lenzuola di un letto che prendono via via corpo e sostanza, trascinando nel baratro il Moro e con lui tutti gli altri.
Si direbbe che non sia la gelosia la protagonista invisibile di questo Otello quanto piuttosto l’invidia, abominevole estrinsecazione di un animo sordido, l’animo di Jago. Jago come simbolo del male assoluto dunque, alfiere di una perfidia incomprensibile, folle e gratuita, che possiamo intuire ma non capire benché palesata appieno nel Credo, massima presa di distanza dall’originale shakespeariano.
Ci sono le stelle ad avvolgere e guidare la storia di Otello, un cielo che osserva da lontano le miserie umane, cornice inconsapevole e lontana, astri ed oroscopi – sovente chiamati in causa nel libretto di Boito – che sono parte fondamentale della scenografia di questo spettacolo d’inizio stagione al teatro veneziano, degna commemorazione del duecentesimo anniversario del massimo operista (e forse massimo uomo di teatro) della storia italiana. La scena si serve di pannelli raffiguranti costellazioni e di un cubo centrale che diviene fulcro e cuore cangiante della vicenda. Un Otello dal gusto tradizionale in fin dei conti, piacevole all’occhio tra stucchi dorati, processioni ed esotismi raffinati ma debole in alcune soluzioni che talvolta sanno di déjà vu o che, seppur indovinate, non riescono a realizzarsi in unitarietà e coerenza (i fantasmi che tormentano Otello, le barche-reliquie agitate dai ciprioti in trionfo durante l’uragano e verso gli abissi del mare nel concertato finale del terzo atto, a rappresentare il naufragio definitivo del condottiero roso dall’ingiuria che diviene sempre più tangibile, l’ascesa di Otello e Desdemona nel finale quarto verso quella Pleiade ardente che nel primo atto contemplavano innamorati). Va in ogni caso reso il merito al regista Francesco Micheli di aver lavorato con perizia su masse e solisti rendendo lo spettacolo teso e scorrevole.
Gregory Kunde è l’Otello che aspettavamo da anni. Non c’è traccia dell’impostura tradizionale che vorrebbe il Moro affidato a vocalità drammatiche dal colore baritonale ma una voce schiettamente contraltina in zona acuta che pure suona ampia anche nelle parti più basse del pentagramma (com’è lecito pensare risultasse il primo interprete Tamagno). La parte risolta nel canto anche dove sarebbe comodo scivolare in un declamato affatto consono al dettato verdiano. Ci sono tutte le sfumature e gli alleggerimenti che piace – e che è pure tanto raro – ascoltare in Otello al pari delle esplosioni violente che dal tono autoritario del primo atto passano via via all’indomabile furia del secondo, fino all’ira cieca del terzo. I momenti di raccoglimento (Dio, mi potevi scagliar o l’impervio finale quarto) così come il duettone del primo atto sono risolti in un canto a fior di labbra morbido e sfumato di commovente intensità.
Leah Crocetto è una Desdemona che guarda Otello dritto negli occhi, per nulla remissiva. Le manca la disinvoltura dell’interprete esperta, soprattutto sul versante musicale troppo ingessato al solfeggio, la voce è tuttavia bella e sonora nei centri e corre come meglio non potrebbe in ogni angolo della sala mentre soffre un po’ il registro grave. L’attrice è impacciata e talora cede alla tentazione di concedersi a pose da divastra.
Lucio Gallo sembra cercare per Jago una vocalità che non gli appartiene scurendo la voce che rimane inevitabilmente bloccata in gola. L’intonazione è spesso imprecisa, soprattutto nel brindisi, mentre sa regalare momenti indovinati (un sogno tutto a fior di labbro, forse in odore di falsetto ma particolarmente suggestivo). Fallisce nei numerosi passaggi di canto di conversazione dove fatica a trovare la giusta misura, scivolando spesso nel parlato o caricando eccessivamente l’accento. Compensa un canto non sempre pregevole con discreta presenza scenica. Buona la prova di Francesco Marsiglia, Cassio squillante e partecipe, di Elisabetta Martorana, Emilia di bella voce, all’altezza tutti gli altri.
Sul podio di un’ottima orchestra della Fenice, il maestro Myung-Whun Chung fa dell’opera verdiana un dramma infuocato, una corsa inarrestabile verso la tragedia. Forte di una sottile gestione dell’agogica e di un lavoro millimetrico sul ritmo come sugli impasti orchestrali, il direttore coreano scansa sistematicamente ogni sorta di sentimentalismo, puntando dritto verso una teatralità immediata, epidermica. Otello esce dalle mani di Chung come narrazione emotiva, l’orchestra è la vera protagonista, la voce del non detto, del pensiero o del sottinteso. Se è vero che si è sentita la mancanza di un abbandono maggiore nei momenti squisitamente lirici dell’opera (il duetto d’amore su tutti), perfetti sono parsi il mobilissimo uragano iniziale, l’accompagnamento ditirambico al brindisi, il concertato del terzo atto, abilmente equilibrato nei volumi e gestito in un crescendo emotivo travolgente. Eccellente la prova del coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.
Recensione – Pare che Wagner intendesse, con Tristan und Isolde, erigere un monumento a quell’amore totalizzante di cui mai aveva avuto esperienza e che pure viveva in lui come il più bello dei sogni. Un amore giusto – o forse sbagliato – a tal punto da annientare ogni cosa eccetto se stesso, amore che chiede eternità, quella della notte e della morte, che vede nella luce esecrata del giorno l’ordine etico e morale degli uomini, troppo piccolo e povero per comprendere la dimensione di un sentimento tanto grande. E forse tutto sommato aveva ragione Nietzsche quando scrisse che se è vero che ogni gioia vuole eternità, in fondo l’epilogo del Tristano non è poi tanto tragico.
L’amore tra Tristano e Isotta c’è da sempre, dal primo incontro, il filtro d’amore probabilmente neppure esiste, esso è – nel malinteso che si tratti di un veleno mortale – il nullaosta alla definitiva esplosione della passione. Loro, due anime sole che si riconoscono l’una nell’altra, che unite sono tutto e sole meno di niente, il resto del mondo diventa indifferente, potrebbe non esistere che sarebbe lo stesso.
Paul Curran sceglie di spogliare la scena d’ogni eccesso lasciando sul palco i personaggi e poco più, il delicato gioco di luci sulle scenografie grigiastre disegna un’atmosfera delicata e poetica. Il buon lavoro sui solisti rende la regia – benché statica – efficace soprattutto quando i cantanti siano capaci di reggere la tensione teatrale che una simile impostazione richiede. Il primo atto è un gioco di distanze ed incomunicabilità che diventano via via sempre più sottili fino al contatto fisico, erotico, il secondo un dolce abbandono alla tenerezza – piuttosto che all’eros – tra i due amanti protetti dalla notte. Il terzo si giova di uno straordinario protagonista capace di catalizzare l’attenzione su di sé, forte di una consapevolezza interpretativa da artista di razza. Un Tristan lacerato dal peso dell’assenza, tenacemente aggrappato alla spalla di Kurwenal in un delirio di solitudine reso in un canto scavato fino all’ultima delle sillabe.
Il maestro Myung-Whun Chung dà del capolavoro wagneriano una lettura vibrante, mobilissima, lontana mille miglia dai misticismi e dai languori di certa tradizione ma versata piuttosto ad un’analisi vivisettoria della partitura, restituita da un’orchestra al di sopra di ogni lode. La musica è narrazione intima, abbandono all’emozione (talora incontrollato, soprattutto nei volumi), quella della passione travolgente ed irrefrenabile degli amanti che sa trovare ripieghi di sofferta intensità, senza inciampare in cali di tensione. L’orchestra del teatro veneziano suona con precisione e pienezza, di un colore cupo, riflesso di quella notte che nel dramma wagneriano ha i colori della verità.
Brigitte Pinter è per voce e personalità impari alla parte. Lo strumento ha poco di bello ed è impiegato con alterne fortune in un canto faticoso ed opaco, l’intonazione spesso perfettibile, il peso vocale insufficiente a vincere l’orchestra laddove la voce di un’Isolde dovrebbe tuonare con lei. Il primo atto è discreto, il secondo risolto non senza fatica, il terzo problematico, concluso con un Mild und leise pieno di buone intenzioni e poco altro.
Ottima viceversa la prova di Ian Storey nei panni di Tristan. Dopo un inizio cauto il tenore solleva la testa appropriandosi della parte in ogni sua sfumatura. Canto e recitazione si fondono nel ricamare un Tristano intenso, persino commovente nell’atto terzo. La gestione sensibile e curatissima del canto, il fraseggio cesellato e la partecipazione emotiva compensano abbondantemente ciò che talora manca in termini di volume.
Eccellente la Brangäne di Tuija Knihtilä, mezzosoprano dalla voce preziosa per colore e pienezza di suono. Non convince invece il Kurwenal di Richard Paul Fink i cui buoni propositi non possono che rimanere tali in ragione di un’emissione eterodossa che esita in un canto fibroso e impreciso. Positiva la prova del basso Attila Jun, Re Marke possente ma mai stentoreo, sofferto senza essere lambiccato, pienamente convincente nello scomodo monologo del secondo atto. All’altezza della situazione il Melot di Marcello Nardis, il pastore di Mirko Guadagnini, il pilota di Armando Gabba, sorprendente il giovane marinaio di Gian Luca Pasolini.
Paolo Locatelli
paolo.locatelli@ildiscorso.it
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