Julia Fischer non è il genere di strumentista ipertecnica che spara a mitraglietta note su note tutte inesorabilmente telefonate nella loro perfezione meccanica, ma qualcosa di molto diverso. Se c’è una violinista che sa far cantare quel pezzo di legno come fosse un soprano, con una grazia nel porgere che ammanta di spontaneità ogni frase musicale, questa è lei.
La sua presenza è insomma una buona ragione per guardare con interesse alla milionesima interpretazione del Concerto per violino e orchestra in Re maggiore op. 77 di Brahms, che capita di ascoltare in tutte le salse ma raramente in un approccio così sorgivo e intimistico al tempo stesso, così “antidivistico”, caratterizzato da una naturalezza di legato e di fraseggio applicata su di un suono che si sviluppa, ottava dopo ottava, senza la minima frattura. Si tratta peraltro di un’opera con cui la violinista ha un rapporto consolidato, avendola anche registrata per Pentatone nel 2006 accanto a Yakov Kreizberg, il defunto fratello di Semyon Bychkov, che sarà il prossimo protagonista della stagione musicale del Teatro Nuovo Giovanni da Udine il 2 aprile.
Evidentemente lo stile della Fischer ha incontrato il favore del pubblico friulano, che si è spellato le mani per la trentanovenne violinista tedesca, la quale per congedarsi definitivamente ha dovuto “concedere” tre bis (Paganini, Bach e ancora Paganini).
Accanto a lei l’Orchestra della Svizzera italiana, guidata dal suo direttore principale Markus Poschner, ha confermato le buone impressioni lasciate nel concerto della scorsa stagione. È un'orchestra duttile, dal suono tendenzialmente chiaro e con qualche punta di secchezza, che Poschner plasma con un approccio più stuzzicante dal punto di vista della concertazione che della direzione vera e propria, come si ha modo di apprezzare anche nella Terza Sinfonia di Čajkovskij, la Polacca. È un lavoro che non capita sovente di poter ascoltare e se ne capiscono le ragioni solo se lo si rapporta alla tripletta di sinfonie che gli sono seguite, le quali hanno una compiutezza incommensurabilmente superiore, ma che preso come pezzo a sé avrebbe una dignità nell’elaborazione del materiale musicale e nell’orchestrazione ben altro che disprezzabili. Quello che propone Poschner è un Čajkovskij senza fronzoli né struggimenti, ma discorsivo, ben bilanciato tra le sezioni e limpido nell'esecuzione - pur con qualche ingresso non pulitissimo dei fiati e una defaillance della tuba - che non brilla per flessibilità, né per corpo del suono, ma che ha nell’asciuttezza narrativa e nella varietà della dinamica i suoi punti di forza.
Pubblico che, come detto, saluta trionfalmente la solista ma si dimostra altrettanto caloroso con direttore e orchestra a fine serata.
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