In fin dei conti ogni palcoscenico non è che un enorme specchio dinnanzi al quale dobbiamo cercare di guardarci in faccia, è un moltiplicatore di domande, non una fabbrica di risposte. Qualunque sia la natura di ciò che cela, sia esso uno spettacolo di prosa o teatro musicale, un balletto o un concerto, il fine ultimo di ogni alzata di sipario è svelare allo spettatore un dettaglio di se stesso, attraverso quella contrapposizione dialettica che stimola il dibattito e, quindi, la riflessione.
Tale processo, per quanto possa apparire meno immediato, vale anche per la musica, anzi, per il suono. Perché se è vero che nel repertorio musicale il testo rimane più o meno immutato nei secoli, quello che evolve continuamente è la relazione che con esso hanno pubblico e artisti, quello che vi cercano e che hanno bisogno di trovarci.
Lo Schumann che Philippe Herreweghe e la sua Orchestre des Champs-Élysées suonano su strumenti d’epoca, e secondo una prassi esecutiva storicamente informata, è in tal senso illuminante, perché ci pone di fronte a noi stessi, alle nostre contraddizioni e sofisticazioni, e ci costringe ad interrogarci su quali siano gli stimoli che sollecitano la nostra sensibilità e da dove nasca il nostro sentire. Il rapporto con la musica e con il suono non è mai assoluto, non è avulso dal contesto storico e culturale, ma strettamente relazionato a dinamiche mutevoli e abitudini d’ascolto. L’interpretazione musicale non ha a che fare solo con la musica in sé dunque, o con lo spartito, ma anche con le stratificazioni che il tempo vi ha sedimentato.
Sarebbe quindi sbagliato e fuorviante pensare all’approccio “storicamente informato” come puro esercizio di filologia o curiosità intellettualistica, perché è molto di più, è innanzitutto un invito a meditare su quanto sia mutevole e influenzabile la nostra concezione dell’arte e, conseguentemente, gli effetti che essa genera in noi. Si pensi ad esempio a un certo modo di intendere il romanticismo – chi è più romantico di Schumann? – talmente segnato nell’immaginario collettivo dai decenni che l’hanno seguito da corrispondere solo parzialmente alla sua identità originale. Questo repertorio è stato via via trascinato verso una prassi esecutiva tardo-ottocentesca, che si è sì stemperata negli ultimi decenni, ma comunque senza (quasi) mai rinunciare agli strumenti moderni e a un approccio posteriore al colore orchestrale, fatte salve le ben note eccezioni. Il che, beninteso, non significa che ci sia uno Schumann autentico ed uno falsificato, o che esistano due modi, giusto o sbagliato in assoluto, di eseguirlo ma che, appunto, ogni epoca ha letto il compositore tedesco secondo la propria sensibilità.
L’esperienza filologica chiarisce altresì quanto la modernizzazione degli strumenti musicali abbia ampliato il “dizionario” del musicista, arricchendo la tavolozza timbrica, le possibilità dinamiche e molto altro. Chiaramente un ascoltatore d’oggi non può fingere di dimenticare tutto ciò e l’esperienza di ascolto, che non è quella di un uomo del 1850, condiziona la fruizione della musica, attenuando quell’effetto dirompente e rivoluzionario che il romanticismo doveva avere su chi lo stava vivendo in prima persona. Si tratta infatti di anni segnati da grandissime rivoluzioni, sia formali, sia tecniche (intorno alla metà del XIX secolo il fortepiano lascia progressivamente posto al pianoforte, i corni acquisiscono i cilindri, nascono i fiati come li conosciamo oggi, ecc.). Tutto questo fermento tecnologico, oltre ad arricchire le possibilità di scrittura per i compositori, faceva scoprire alle orecchie del pubblico sonorità sconvolgenti, esperienza cui si può oggi ambire paradossalmente proprio ritrovando quel linguaggio originale. Che sia questa una delle vie per salvaguardare la novità sostanziale del romanticismo?
Evidentemente quanto detto finora implica una serie di problemi interpretativi per il direttore d’orchestra, o comunque di traduzione del testo in musica, diversi da quelli che solleverebbe un'orchestra moderna: diverse sono le proporzioni dei volumi interni, diverse (e assai più povere) le possibilità timbriche, minori quelle dinamiche (il forte di un'orchestra antica è completamente diverso da quello delle formazioni d'oggi), diversa la “malleabilità” del suono. Pertanto il lavoro del maestro deve concentrarsi su un ventaglio di opzioni più ristretto: linee strumentali, fraseggio, articolazione, ed Herreweghe lo sa benissimo. La sua Sinfonia n. 3 op. 97 “Renana” è frutto di un lavoro di bulino sul dettaglio, sull’inciso, e di un’affinità profonda con la sua orchestra, che gli risponde al minimo cenno. Non c’è la polpa del suono, è vero, né una varietà caleidoscopica di sfumature – sono gli strumenti stessi a non consentirlo – ma vi si può apprezzare di contro una chiarezza contrappuntistica a tratti sorprendente e, appunto, una cura meticolosa per lo sviluppo di ogni singola frase.
Vale su per giù lo stesso discorso per il Concerto op. 54 che Alexander Lonquich suona su un Blüthner del 1856, a rigore di qualche lustro successivo alla stesura dell'opera. Lo strumento non consente virtuosismi coloristici, ha un suono assai più secco e piccolo rispetto a un pianoforte moderno e non mostra clemenza per la minima sbavatura. Altresì sollecita un pianismo nudo, di pura sostanza, in cui la classe e lo spessore intellettuale di Lonquich hanno modo di emergere a pieno. Ogni frammento melodico – e sappiamo quanto sia musicalmente e affettivamente frastagliata la scrittura di Schumann – ha il suo tono, il suo peso specifico e carattere all'interno del discorso musicale, e Lonquich non arriva a tanta espressione attraverso il grande gesto o l'effetto marcato, ma con il fraseggio, con le mille sfumature di morbidezza, d'impeto o di melanconia. E se qualche nota scappa via, qua e là, è poca cosa.
Schumanniani anche i due bis, che salutano un pubblico entusiasta.
Recensione pubblicata su OperaClick
Tale processo, per quanto possa apparire meno immediato, vale anche per la musica, anzi, per il suono. Perché se è vero che nel repertorio musicale il testo rimane più o meno immutato nei secoli, quello che evolve continuamente è la relazione che con esso hanno pubblico e artisti, quello che vi cercano e che hanno bisogno di trovarci.
Lo Schumann che Philippe Herreweghe e la sua Orchestre des Champs-Élysées suonano su strumenti d’epoca, e secondo una prassi esecutiva storicamente informata, è in tal senso illuminante, perché ci pone di fronte a noi stessi, alle nostre contraddizioni e sofisticazioni, e ci costringe ad interrogarci su quali siano gli stimoli che sollecitano la nostra sensibilità e da dove nasca il nostro sentire. Il rapporto con la musica e con il suono non è mai assoluto, non è avulso dal contesto storico e culturale, ma strettamente relazionato a dinamiche mutevoli e abitudini d’ascolto. L’interpretazione musicale non ha a che fare solo con la musica in sé dunque, o con lo spartito, ma anche con le stratificazioni che il tempo vi ha sedimentato.
Sarebbe quindi sbagliato e fuorviante pensare all’approccio “storicamente informato” come puro esercizio di filologia o curiosità intellettualistica, perché è molto di più, è innanzitutto un invito a meditare su quanto sia mutevole e influenzabile la nostra concezione dell’arte e, conseguentemente, gli effetti che essa genera in noi. Si pensi ad esempio a un certo modo di intendere il romanticismo – chi è più romantico di Schumann? – talmente segnato nell’immaginario collettivo dai decenni che l’hanno seguito da corrispondere solo parzialmente alla sua identità originale. Questo repertorio è stato via via trascinato verso una prassi esecutiva tardo-ottocentesca, che si è sì stemperata negli ultimi decenni, ma comunque senza (quasi) mai rinunciare agli strumenti moderni e a un approccio posteriore al colore orchestrale, fatte salve le ben note eccezioni. Il che, beninteso, non significa che ci sia uno Schumann autentico ed uno falsificato, o che esistano due modi, giusto o sbagliato in assoluto, di eseguirlo ma che, appunto, ogni epoca ha letto il compositore tedesco secondo la propria sensibilità.
L’esperienza filologica chiarisce altresì quanto la modernizzazione degli strumenti musicali abbia ampliato il “dizionario” del musicista, arricchendo la tavolozza timbrica, le possibilità dinamiche e molto altro. Chiaramente un ascoltatore d’oggi non può fingere di dimenticare tutto ciò e l’esperienza di ascolto, che non è quella di un uomo del 1850, condiziona la fruizione della musica, attenuando quell’effetto dirompente e rivoluzionario che il romanticismo doveva avere su chi lo stava vivendo in prima persona. Si tratta infatti di anni segnati da grandissime rivoluzioni, sia formali, sia tecniche (intorno alla metà del XIX secolo il fortepiano lascia progressivamente posto al pianoforte, i corni acquisiscono i cilindri, nascono i fiati come li conosciamo oggi, ecc.). Tutto questo fermento tecnologico, oltre ad arricchire le possibilità di scrittura per i compositori, faceva scoprire alle orecchie del pubblico sonorità sconvolgenti, esperienza cui si può oggi ambire paradossalmente proprio ritrovando quel linguaggio originale. Che sia questa una delle vie per salvaguardare la novità sostanziale del romanticismo?
Evidentemente quanto detto finora implica una serie di problemi interpretativi per il direttore d’orchestra, o comunque di traduzione del testo in musica, diversi da quelli che solleverebbe un'orchestra moderna: diverse sono le proporzioni dei volumi interni, diverse (e assai più povere) le possibilità timbriche, minori quelle dinamiche (il forte di un'orchestra antica è completamente diverso da quello delle formazioni d'oggi), diversa la “malleabilità” del suono. Pertanto il lavoro del maestro deve concentrarsi su un ventaglio di opzioni più ristretto: linee strumentali, fraseggio, articolazione, ed Herreweghe lo sa benissimo. La sua Sinfonia n. 3 op. 97 “Renana” è frutto di un lavoro di bulino sul dettaglio, sull’inciso, e di un’affinità profonda con la sua orchestra, che gli risponde al minimo cenno. Non c’è la polpa del suono, è vero, né una varietà caleidoscopica di sfumature – sono gli strumenti stessi a non consentirlo – ma vi si può apprezzare di contro una chiarezza contrappuntistica a tratti sorprendente e, appunto, una cura meticolosa per lo sviluppo di ogni singola frase.
Vale su per giù lo stesso discorso per il Concerto op. 54 che Alexander Lonquich suona su un Blüthner del 1856, a rigore di qualche lustro successivo alla stesura dell'opera. Lo strumento non consente virtuosismi coloristici, ha un suono assai più secco e piccolo rispetto a un pianoforte moderno e non mostra clemenza per la minima sbavatura. Altresì sollecita un pianismo nudo, di pura sostanza, in cui la classe e lo spessore intellettuale di Lonquich hanno modo di emergere a pieno. Ogni frammento melodico – e sappiamo quanto sia musicalmente e affettivamente frastagliata la scrittura di Schumann – ha il suo tono, il suo peso specifico e carattere all'interno del discorso musicale, e Lonquich non arriva a tanta espressione attraverso il grande gesto o l'effetto marcato, ma con il fraseggio, con le mille sfumature di morbidezza, d'impeto o di melanconia. E se qualche nota scappa via, qua e là, è poca cosa.
Schumanniani anche i due bis, che salutano un pubblico entusiasta.
Recensione pubblicata su OperaClick
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