8 marzo 2018

Yuri Temirkanov torna alla Fenice

Grossomodo esistono due tipi di direttori d'orchestra: gli sbobinatori più o meno accurati della partitura, i quali puntano innanzitutto a tradurre la pagina in suono mettendo tutti i puntini sulle “i”, e quelli che fanno musica. Yuri Temirkanov appartiene alla seconda categoria, anzi, ne è uno dei più gloriosi vessilliferi. Il grande maestro russo non è un apostolo della perfezione strumentale, non venera il dettato né la trasparenza, non regala esecuzioni ma vertigini.




Se ne ha esperienza nella sezione centrale dell’Allegro moderato dell’Incompiuta di Schubert, un progressivo montare di poesia e furore, un abisso che si spalanca verso l’alto, contro gravità. Come ci riesce? Temirkanov tratta la musica come fosse una gomma plastica nelle sue mani, la strizza e la allenta con un cenno, la addensa pennellando l’aria con le dita della sinistra. Ci si chiede cosa passi per la testa ai primi violini quando si vedono richiamati da quel gesto enigmatico che sollecita al contempo densità e flessibilità. Eppure il risultato è tangibile, così come sono tangibili il colore delle viole, quello degli archi gravi, e la libertà ritmica con cui si sviluppa la musica. Certo l’approccio è quello del “grande vecchio”, perché la sua orchestra è estremamente compatta e drammatica, totalmente disinteressata alle conquiste recenti della prassi storicamente informata – e in certi momenti è anche un po’ pesante – ma sempre in controllo, senza che la mole del suono offuschi mai i piccoli dettagli, non solo strumentali, che sono poi quelli che fanno la differenza tra l’esecuzione normale e quella straordinaria.

La magia riesce perché l’Orchestra della Fenice lo segue al millimetro e sa camuffarsi, almeno nel colore, da Filarmonica di San Pietroburgo (benissimo gli archi!).

È meno entusiasmante la Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore di Sergej Prokof’ev perché qui l’orchestra ci va con i piedi di piombo e qualcosa scappa via, nonostante Temirkanov riesca a raccontare l'ambiguità malata che serpeggia in fondo all'opera, l’apparente trionfalismo ottimistico dietro cui si cela una meccanicità alienante. Il finale di Primo movimento, così cupo e sinistro, è un pugno nello stomaco, una frattura che incrina quel clima di festosità forzosa sempre lì lì per realizzarsi. Però ci sono anche tanti passaggi affrontati con troppa cautela, peccato.

Il pubblico saluta con un entusiasmo inspiegabilmente sbrigativo.

Paolo Locatelli
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