Sono tempi bui per le fondazioni liriche italiane, ormai da troppo tempo. Così, mentre molti tirano a campare con un occhio al botteghino e l’altro fisso sul bilancio, alternando Tosche e Rigoletti come se non ci fosse un domani – e non è detto che ci sarà, alla luce degli sviluppi recenti – alla Fenice si inaugura la stagione con un’opera nuova, iniziativa più unica che rara di questi tempi e degna di ogni lode possibile.
Aquagranda, musica di Filippo Perocco, va in scena a cinquant’anni esatti dall’alluvione che il 4 novembre del 1966 sommerse Venezia e ne ricorda i tragici momenti.
Avendo lo spettacolo raccolto consensi pressoché unanimi da parte di pubblico e critica, con un certo imbarazzo riconosco di appartenere alla minima e sparuta schiera di quanti faticano a riconoscerne la grandezza.
Se non c’è dubbio sul fatto che la musica di Perocco abbia un suo fascino, soprattutto negli impasti timbrici e nell’uso delle percussioni, rimane qualche titubanza sull’efficacia teatrale, più che della musica in sé, del lavoro nel complesso. Il libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola infatti, nella ricerca estenuante della sfumatura fonetica, del suono, del colore, trascura la drammaturgia per virare verso un altro tipo di codice espressivo.
È evidente che né la trama, né l’azione, né tanto meno la psicologia dei personaggi siano l’obiettivo centrale dei librettisti ma tale impostazione, per quanto legittima, una qualche ipoteca sulla riuscita del lavoro la pone. O meglio, Aquagranda non è un’opera convenzionale ma poggia su un linguaggio teatrale eterodosso, in cui non è sempre agevole entrare, o che non è quantomeno immediatamente traducibile. C’è senz’altro una qualche forza evocativa, a tratti di grande intensità, che tuttavia da sola fatica a sostenere l’intera durata dello spettacolo, soprattutto per la debolezza di molti versi e la tendenziale monotonia (nel senso di uniformità di ritmo e colori) della creazione.
Nessuna riserva invece su Paolo Fantin che si conferma genio tra i più brillanti del panorama contemporaneo. L’impianto scenico da lui pensato è semplice ma di straordinario effetto: una parete cava che si riempie lentamente d’acqua taglia il palcoscenico nella sua larghezza. Il progressivo accumulo, che segue il montare dell’alluvione, culmina in una poderosa cascata nel momento in cui crollano i murazzi di Pellestrina.
Un tavolo, qualche sedia e poco altro sono gli unici elementi su cui costruire una regia. Ai lati della scena, sotto i palchi di barcaccia, trova posto il coro, voce della laguna, il vero motore dell’opera.
Le proiezioni video di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, che alternano immagini della Venezia attuale a documenti d’epoca, scadono nei momenti di eccessivo realismo, soprattutto nell’evitabilissimo finale. Di grande suggestione il disegno luci di Alessandro Carletti.
Damiano Michieletto è attualmente il più importante regista d’opera italiano. La sua forza, più che nelle idee (talvolta ingenue, altre volte illuminanti), sta nella capacità di dar loro coerenza e piena realizzazione: Michieletto è il tipo di regista che racconta una storia completamente diversa da quella che ci si aspetta ma che alla fine, tale è l’abilità nello sviluppare recitazione e ritmo, finisce per convincere. Il che non significa affatto essere un provocatore o un furbastro, sia chiaro.
Qui però non c’è nessuna prospettiva da ribaltare ma solo un’azione (lenta, lenta…) da raccontare o, a tratti, inventare, e il Michieletto dei giorni migliori ne esce depotenziato. Benché la gestione dei singoli sia ben risolta e la zampata del grande artista a tratti emerga (l’utilizzo dei pochi elementi, soprattutto delle sedie, per costruire una regia è cosa da vero maestro), l’abuso di pose plastiche, movimenti lenti, grandi gesti, lascia qualche perplessità. Senz’altro si tratta di una regia pensata sulla musica, per sua natura poco adattabile a una maggiore dinamica, ma qualche esitazione di troppo sul piano tecnico c’è. Non aiutano molto i movimenti coreografici di Chiara Vecchi che, pur nella raffinatezza, tradiscono un eccesso di manierismo.
Sul fronte musicale le cose vanno alla perfezione. Se la cavano benissimo i sette solisti, capaci di venire a capo di una scrittura vocale ostica, più versata alla ricerca timbrica che a servire la parola.
Solidissime le voci di basso di Francesco Milanese (Fortunato) e Vincenzo Nizzardo (Nane), le cui parti insistono sulle zone gravi del pentagramma. Giulia Bolcato si mangia con facilità le scomodissime acrobazie virtuosistiche di Lilli. L’Ernesto di Mirko Guadagnini è sicuro così come convince pienamente William Corrò, Luciano.
Marcello Nardis si disimpegna con onore nei panni (musicalmente) scomodissimi di Cester. Sicura nel canto e disinvolta sulla scena Silvia Regazzo, Leda.
Aquagranda conferma per l’ennesima volta il valore dei complessi della Fenice. Coro e orchestra, che si tratti di grande repertorio, di rarità novecentesche, di riscoperte o di musica sacra, viaggiano sempre su alti livelli. I meriti in questo caso vanno condivisi con Claudio Marino Moretti, ormai una garanzia alla guida del coro, e il bravo Marco Angius che si destreggia tra i ritmi e i colori dell’opera di Perocco senza un’esitazione.
Successo pieno.
Paolo Locatelli
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