Dimenticatevi il Mahler mistico, trascendente, se non in distacco dal mondo almeno in ascensione, della Nona come l’abbiamo spesso o quasi sempre conosciuta. Per Philippe Jordan la Sinfonia n. 9 in re maggiore è faccenda umana, di terra e sangue, di passioni e tormenti devastanti. Una lotta titanica o metafora di una vita che combatte, soffre, si dà fino allo stremo delle forze e, inesorabilmente, si spegne nel grande Adagio finale. Davvero una Nona così non la si era ancora ascoltata, un prodigio di tensione e calore, a tratti persino ustionante, violenta ma densa di una poesia e di una verità rarissime. Né mancano momenti di dolcezza o di malinconico abbandono in uno sviluppo che è narrativo, avvincente.
Tutto ciò non sarebbe minimamente pensabile se di fronte a un maestro di tali personalità interpretativa e carisma non ci fosse uno strumento del livello della Gustav Mahler Jugendorchester la quale è sì, di fatto, una compagine giovanile, ma non fosse per la debordante presenza di bellezza e gioventù schierata sul palco, nessuno potrebbe sospettarlo.
Un’orchestra che non è solamente prodigiosa (ma prodigiosa davvero!) sul piano tecnico e qualitativo, ma è ancor più guidata da un entusiasmo – e forse da giovanile incoscienza - che la spoglia di ogni prudenza, così da offrirsi al podio con generosità e coraggio da lasciare a bocca aperta. Tali sono la ricchezza di dinamiche (quei pianissimi eterei), gli scarti brucianti, l’articolazione rivelatrice che Jordan disegna, che a tratti si ha davvero l’impressione di assistere a mirabolanti peripezie sul vuoto, senza rete di protezione. Eppure non c’è passaggio che metta in difficoltà questi musicisti e anche i passi più indiavolati (su tutti un Rondo-Burleske vorticoso che si stringe battuta dopo battuta) riescono con un virtuosismo disarmante.
Non di meno, a dispetto delle dimensioni mastodontiche dell’organico, la Gustav Mahler Jugendorchester è capace di raffinatezze cameristiche, di sussurrare, ma anche di scatenarsi in ondate di suono talmente scintillante e compatto da far tremare le pareti della piccola sala del Verdi. Il suono è poi di straordinaria ricchezza, pastoso ma sempre morbido, i timbri hanno calore e densità stupefacenti (cosa sono quell’ingresso dei secondi violini nel primo movimento o l’attacco degli archi nell’Adagio!).
Non bastasse l’estremo capolavoro di Mahler, che già da solo farebbe serata, nel programma del concerto inaugurale della stagione del Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone rientra anche Das Abschied da Das Lied von der Erde, primo capitolo della “trilogia dell’addio al mondo” e perfetto preludio a quanto finora raccontato.
Rispetto al fuoco della sinfonia qui c’è un Jordan tutto vapori e trasparenze, capace di tessere un cuscino di velluto per sostenere il meraviglioso artista che è Christian Gerhaher. Il baritono assapora ogni parola, la colora, fino a quegli ewig bisbigliati, sempre più piano. La voce è un miracolo di duttilità, il timbro rimane sempre carezzevole anche nelle aperture più audaci, quasi al limite del parlato, l’emissione a tratti pare rinunciare all’impostazione senza che questo comporti stimbrature o disomogeneità tra i registri.
Quando a fine concerto si spegne nel silenzio quel Re bemolle impalpabile e minuscolo degli archi, il teatro piomba in un silenzio eterno, commosso. Jordan posa la bacchetta e il pubblico esplode.
Trionfo oceanico che si placa solo quando il maestro congeda l’orchestra.
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