10 dicembre 2015

Teatro La Fenice: Jeffrey Tate apre la stagione sinfonica

Dopo il recentissimo Idomeneo Jeffrey Tate torna sul podio dell'Orchestra del Teatro La Fenice per un'altra inaugurazione, quella della stagione sinfonica che vedrà assoluto protagonista Anton Bruckner. Si parte dalla sua Seconda sinfonia affidata appunto – accanto alla Piccola di Schubert – al Maestro inglese il quale appare tuttavia, rispetto all'esaltante prova mozartiana e al Mahler di alcuni mesi fa, assai meno ispirato.

Interlocutoria e sbrigativa la Sinfonia n.6 in Do Maggiore di Franz Schubert che dà, sin dall'inizio, l'impressione di riuscire disomogenea e poco centrata. Sorprende che un musicista sensibile ed esperto come Tate non riesca a trovare un giusto equilibrio tra le sezioni: in particolare si ha la sensazione che, nonostante il tappeto degli archi sia piuttosto delicato, i legni siano portati a forzare oltre il necessario, perdendo così di morbidezza e fluidità. Non di meno disturba una certa pesantezza, più negli accenti che nelle sonorità, che pervade l'intera sinfonia. Al di là delle riserve non si può dire che l'orchestra suoni male, tutt'altro, malgrado gli eccessi di corposità che a tratti conferiscono meccanicità all'opera. Sullo sfondo si intravede, e talora emerge con forza, la zampata del grande artista: il primo movimento è illuminato da una serenità quasi sorridente, lo Scherzo seduce per la caratterizzazione, più dinamica che timbrica, di ogni inciso e l'abilità nel renderlo parte di un discorso musicale fluido. L'Allegro moderato è staccato con un tempo rapidissimo che, se da un lato gli conferisce un'urgenza ed un'irrequietezza brulicante, dall'altro lo rende eccessivamente confuso e, complice qualche strattone troppo marcato, lo impoverisce.

Va meglio con il Bruckner della Seconda Sinfonia in Do Minore la cui virtù più evidente è una luminosa chiarezza espositiva: Tate “spiega” alla perfezione la struttura del lavoro inquadrando ogni dettaglio in un disegno ampio, con le singole voci capaci di emergere con mirabile equilibrio nonostante la densità del suono. Un'esaltazione dell'architettura non priva di fascino dunque ma, inevitabilmente, a rischio di staticità. L'impostazione più “pensata” che istintiva comporta, alla lunga, qualche calo di tensione, complici una monocromaticità di fondo che omogenizza l'intero sviluppo ed una scansione dei tempi abbastanza rigida. Il tutto pare molto, forse troppo, monumentale e serioso ma, non di meno, è assai ben eseguito. 

Il suono è ammaliante e caldo sin dall'ingresso del tema dei violoncelli ma tende a mantenersi uniforme con minime variazioni sul tema. In sostanza il disegno di Tate prevede un'orchestra lussureggiante e levigata che sappia prestarsi ad un'infinità di sfumature dinamiche mentre per quanto riguarda la varietà di colori e inflessioni ritmiche il quadro risulta più piatto e ingessato. Alcuni momenti catturano per magia e bellezza (l'attacco dell'Andante su tutti), altri meno: il carattere popolare dello Scherzo, ad esempio, risulta marcato in modo quasi stucchevole. Resta tuttavia, sullo sfondo, l'impressione che il procedimento contemplativo tenda a sgonfiare la narrazione anche in ragione del fatto che gli spunti e i guizzi di fantasia capaci di vivacizzarla sono davvero minimi.

Merita un elogio la prova dell'Orchestra del Teatro La Fenice, assolutamente all'altezza dell'impegno sinfonico sia per precisione sia per qualità del suono.

Un appunto infine: si comprendono a fatica le ragioni di alcune scelte testuali operate dal maestro come la riapertura dei tagli in Bruckner e, soprattutto, l'amputazione (compensatoria?) dei ritornelli nella Sesta di Schubert.

Applausi di cortesia, piuttosto sbrigativi, dopo Schubert che diventano ovazioni a fine concerto.

Nessun commento:

Posta un commento