C'è più di un'idea vincente nell'Elisir d'Amore in scena al Teatro Verdi di Trieste, spettacolo fresco e colorato pensato dal regista Fabio Sparvoli. La posposizione della vicenda al secondo dopoguerra ha dei vantaggi: spazza via un po' di polvere dalla partitura donizettiana senza turbare eccessivamente il pubblico più rigido su posizioni tradizionaliste e consente di guardare da una prospettiva inedita taluni temi dell'opera che in altri contesti passano in secondo piano. Emerge con forza ad esempio il divario socioculturale tra la sorridente ingenuità del paese e un Dulcamara cittadino avvezzo a strumenti e malizie che “i villani e le villanelle” nemmeno immaginano. Piace altrettanto il Belcore carabiniere da commedia italiana anni '50. L'ambientazione ha insomma il merito di rendere efficace ed immediata la definizione dei caratteri, almeno per la sensibilità del pubblico contemporaneo.
Foto Fabio Parenzan |
Per il resto siamo dalle parti della tradizione più innocua e rassicurante, una tradizione tuttavia vivacizzata da un'apprezzabile cura per la recitazione dei solisti e soprattutto del coro. Rimane un'unica perplessità: davvero non si capisce perché la dicitura di “melodramma giocoso” giustifichi ancora, anche in allestimenti curati e piacevoli come questo, la concessione a certe forzature comiche che facilmente scadono nel cattivo gusto.
Le semplicissime ma piacevoli scene che accolgono la vicenda sono firmate da Saverio Santoliquido. Scolastico il disegno luci di Jacopo Pantani, belli i costumi di Alessandra Tortorella.
Il direttore d'orchestra Ryuichiro Sonoda dà l'impressione di essere estraneo, per sensibilità e cultura, alla tradizione esecutiva del melodramma italiano buffo, il che non è necessariamente un male. Non ci sono, ad esempio, i tagli che sovente mutilano il capolavoro donizettiano così come assai originali e inedite paiono alcune scelte musicali, soprattutto per quanto riguarda l'articolazione. Manca purtroppo il teatro, soprattutto nel primo atto: la concertazione di Sonoda, per quanto sorvegliata, risulta fin troppo inamidata, riuscendo a tratti inerte sul piano della narrazione. Tale limite pare riconducibile piuttosto che ai tempi, generalmente spediti (almeno dall'ingresso di Dulcamara in poi), ad un'eccessiva timidezza nelle dinamiche. Il dialogo col palcoscenico non è sempre ottimale e gli scollamenti tra orchestra – al solito estremamente affidabile - e cantanti non sono infrequenti.
Roberta Canzian, Adina, si disimpegna con correttezza nel primo atto ma arriva all'aria Prendi, per me sei libero decisamente affaticata. Il soprano ha discreta fluidità e buona musicalità ma risolve non sempre agevolmente le agilità ed il registro acuto.
Leonardo Ferrando è un Nemorino vocalmente garbato e ben calato nella parte. La voce è leggera e di timbro non indimenticabile ma viene modulata con sicurezza e gusto in un canto elegante e morbido. La “Furtiva lagrima”, nonostante le dinamiche fossero tendenzialmente appiattite sul mezzoforte ed il fraseggio abbastanza rigido, si è guadagnata un'ovazione a scena aperta, reazione quasi sorprendente per chi conosce l'austerità del pubblico triestino.
È un peccato che, come spesso avviene, la regia si accanisca contro Belcore perché Filippo Polinelli ha mezzi ragguardevoli e, a suo modo, centra il personaggio. Fatta la tara degli eccessi caricaturali cui è costretto, il carabiniere spaccone e simpaticamente buzzurro disegnato da Polinelli avrebbe diverse ragioni dalla sua, non ultima una vocalità ampia e salda in ogni registro.
Il Dulcamara di Domenico Balzani ha voce importante e calca il palcoscenico con disinvoltura ma tende spesso, soprattutto nei recitativi e nel sillabato stretto, a scivolare nel parlato. Mario Brancaccio è il suo inarrestabile servitore.
Convince la Giannetta elettrica e stralunata di Vittoria Lai, soprano dalla vocalità leggera ma tutt'altro che inconsistente.
Molto positiva la prova del coro preparato da Fulvio Fogliazza.
A fine spettacolo accoglienza calorosa per tutta la compagnia.
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