L'ipotesi esegetica più condivisa, inaugurata da Alban Berg e confermata in parte anche dalle testimonianze di Mahler e di chi gli fu vicino negli ultimi anni, identifica nella Nona Sinfonia un inno alla natura, alla morte, ineluttabile esito estremo di ogni vita umana, ed alla loro drammatica, insolubile, coesistenza. Evidentemente è difficile, durante un'esperienza di ascolto, scindere completamente il giudizio dalle influenze culturali, dai luoghi comuni e persino dall'autosuggestione, tuttavia è innegabile che la lettura della Nona di Mahler, portata al Teatro La Fenice da Jeffrey Tate, scavi nel profondo della partitura, scovandovi la forza più viva e primordiale, quella verità che per un artista è sempre l'orizzonte cui puntare. Pare che Tate riesca a cogliere pienamente questo dualismo tragico, l'opposizione tra una natura pulsante e vitale e la falce incombente della fine, nonché il disagio dell'essere umano nel mezzo, destinato, nonostante tutto, alla sconfitta.
Senza dubbio il Maestro avverte nella Nona Sinfonia una sofferenza lacerante, chiara sin dall'inizio del primo movimento, staccato con un tempo molto lento e con il canto malinconico degli archi – e quell'intervallo discendente di seconda che ricorre continuamente, mai meccanico né trascurato ma ogni volta ripreso con sfumature diverse – su cui si staglia, quasi in un processo dialettico, l'ombra della distruzione. Questo tema fondamentale permea la narrazione, ovviamente, nelle intenzioni del compositore stesso, tuttavia Tate lo enfatizza scegliendolo quale cardine della propria lettura. Lettura che esce quindi estremamente coerente e convincente, senza cali di tensione o debolezze nella tenuta.
Il secondo movimento Im Tempo eines gemachlichen Ländlers è caricato di una pesantezza esagerata, non certo nel suono quanto piuttosto nelle accentazioni, che ne esaspera il lato grottesco e volutamente volgare; se è vero che nei pannelli centrali della sinfonia Mahler intende rappresentare la civiltà umana nelle sue organizzazioni, indiscutibilmente Tate identifica in questa presenza una fatica, una goffaggine nettamente contrapposta alla fluidità dirompente con cui viene rappresentato l'elemento naturale (e che connota quindi i movimenti primo e quarto). Gli sforzi umani, ben dipinti nella struttura razionale e meccanica della musica, paiono grevi e sgraziati, incapaci di fondersi con il mondo che li ospita.
Allo stesso modo la costruzione contrappuntistica del Rondo-Burleske (terzo movimento) è quasi parodiata, calcando la mano sulla rigidità formale della scrittura – “Sehr trotzig” (molto ostinato) indica Mahler – al punto che l'anticipazione del tema portante dell'Adagio irrompe con una morbidezza che chiarisce ulteriormente l'entità della distanza tra artificiale e naturale.
Il dolorosissimo processo dialettico trova nell'Adagio finale non solo il culmine della tensione ma sorprendentemente una soluzione ottimistica: colori, fraseggi e dinamiche che Tate chiede all'orchestra disegnano un distacco sereno, un'ascensione beata, quasi anestetizzata, in progressivo allontanamento dalle asprezze della vita terrena. Si tratta di un'interpretazione profondamente religiosa che asseconda la scrittura e, probabilmente, le intenzioni del compositore stesso.
Molto bene si è comportata l'Orchestra del Teatro La Fenice, capace di ridurre al minimo le imperfezioni e di assecondare il podio in ogni suggestione; pregevole sia la qualità del suono prodotta dai professori d'orchestra, sia la varietà di dinamiche, particolarmente nel quarto movimento.
Entusiastica ma sbrigativa l'accoglienza del pubblico veneziano che ha concesso solamente una manciata di minuti di applausi, invero calorosi, a orchestra e direttore.
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