Madama Butterfly è un’opera tra le più banalizzate, se non tra le più malintese, dell’intero repertorio. La complessità psicologica della protagonista, fortemente caratterizzata da risvolti che non è improvvido leggere sotto il filtro della patologia psichiatrica, l’ambiguità contraddittoria di Pinkerton, l’espressionismo estremamente liricizzato di Puccini, non di rado vengono semplificati ed omogeneizzati nella stessa poltiglia sentimentale da occhi lucidi. Riteniamo pertanto degno della massima ammirazione chi si proponga di invertire la tendenza, cercando di dire qualcosa di nuovo in materia, anche se, come nel caso della Madama Butterfly in scena alla Fenice di Venezia, il risultato non convince pienamente.
Lo spettacolo, con le scene dell’artista Mariko Mori e la regia di Àlex Rigola, spoglia l’opera pucciniana di ogni traccia di oleografia: l’oriente idealizzato del libretto scompare in favore di un’astrattezza generale, o per meglio dire, assenza d’identità. L’ambiente fisso è costituito da una scenografia completamente bianca e nuda, un ambiente vuoto ed impersonale di asettica pulizia, la recitazione dei solisti è stilizzata, ridotta all’osso, ogni eccesso od enfasi eliminati in favore della miniaturizzazione del gesto. In disparte alcune danzatrici accompagnano la narrazione, un unico elemento scenico e alcune videoproiezioni completavano il quadro.
Quello che rimane, in fin dei conti, non è molto. Oltre all’impatto esteticamente piacevole dell’insieme, manca una chiave di lettura univoca e coerente della vicenda di Butterfly, qualcosa che identifichi ed esplichi l’idea drammaturgica di fondo. C’è, e piace ravvisarlo, il progressivo accentuarsi della condizione di perdita di Butterfly, la quale, in un mondo che parrebbe essere proiezione del proprio desiderio (o della fantasia) piuttosto che reale, si trova a dover rinunciare progressivamente all’affetto del padre, della famiglia, del marito ed infine del figlio. La scena, inizialmente affollata e confusa diviene via via sempre più scarna e desolata, il terzo atto è un gioco di solitudini e distanze che rendono efficacemente l’ormai irreversibile incapacità della protagonista di interagire con il mondo di cui faceva parte e da cui è stata abbandonata.
Nei panni della protagonista Cio-Cio-San, Amarilli Nizza esibiva una vocalità ampia e sonora, capace di scavalcare il muro di suono proveniente dall’orchestra, tuttavia la sicurezza d’emissione mostrava la corda nel registro acuto, non sempre facilissimo. A dispetto dei mezzi ragguardevoli è parso mancare l’approfondimento musicale e di fraseggio, soprattutto nel canto di conversazione del secondo atto. Andeka Gorrotxategui era un F.B. Pinkerton credibile sulla scena e ben cantato, Vladimir Stoyanov un solido Sharpless. Merita una menzione la commovente Suzuki di Manuela Custer. Tra le parti minori ricordiamo l’ottimo Goro di Nicola Pamio e l’altrettanto convincente Yamadori di William Corrò.
La direzione musicale, affidata a Omer Meir Wellber lasciava alterne sensazioni. Piaceva l’impeto drammatico di taluni passaggi, certe soluzioni timbriche e ritmiche tese ad accentuare l’asprezza della partitura in luogo del lirismo. Restano tuttavia alcune legittime riserve, non tanto per la scarna tavolozza timbrica o le esplosioni di suono assordante che in taluni momenti giungevano dalla buca, cifre stilistiche a tutti gli effetti del direttore (che potranno trovare o meno il gusto dell’ascoltatore a seconda delle personali preferenze), quanto per la pesantezza generale dell’accompagnamento, spesso prevaricante sulle voci anche nei momenti di piano orchestrale.
Paolo Locatelli
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