Più che una ripresa, il Rigoletto in scena al Teatro La Fenice in questi giorni è il rilancio pari pari della produzione proposta nel 2021, nel periodo in cui a teatro si andava poco e in pochi a causa di lockdown e contingentamenti vari. Stesso protagonista dunque, Luca Salsi, stessa bacchetta, cast sovrapponibile in molti dei nomi e soprattutto stesso spettacolo, a firma di Damiano Michieletto e collaudato team, qui sostituiti dagli assistenti che si sono buscati anche un bel po’ di fischi a fine serata. Sì perché Verdi, e soprattutto il Verdi popolare, resta ancor oggi un santuario inviolabile per quella parte di pubblico che mal digerisce le cosiddette “regie moderne”, termine ombrello che raccoglie tutto quello spettro di soluzioni che vanno dalla trasposizione dell’ambientazione agli stravolgimenti più arditi della drammaturgia.
A onor del vero, in questo caso a Michieletto certo non manca il coraggio nel ribaltare radicalmente le didascalie del libretto, raccontando una storia parallela che, ben si capisce, va seguita con una predisposizione all’elasticità e una certa tolleranza per quanto, a fronte di un guadagno in inventiva, si perde dell’originale e in particolare della sua dimensione politico-sociale.
Quanto alle linee portanti del konzept, vale quanto si scrisse in sede di cronaca all’esordio. Uno spettacolo forte e polarizzante che si sviluppa come flashback di un protagonista sconnesso dalla realtà, costretto tra le mura di un ospedale psichiatrico dopo aver cagionato la morte della figlia. In questo limbo fisico e mentale, lo divora un delirio in cui si mescolano frammenti di vissuto a incubi, spettri e proiezioni su quel poco di personale che si prende cura di lui. Una prigione senza vie di fuga ma spalancata ad allucinazioni che non hanno quasi mai un volto, se non quello replicato all’infinito del Duca, il quale tormenta ossessivamente Rigoletto rinfocolando il dolore della perdita e il senso di colpa, in un eterno, straziante presente che si nutre dei traumi del passato.
Quello di cui si racconta è uno spettacolo di eccellente realizzazione, con tante buone idee, alcune delle quali brillantissime quando non illuminanti, ma anche un po’ furbetto. In fondo sotto all’ombrello della psicosi, e quindi della fantasia più sfrenata e irrazionale, è facile celare una comoda via di fuga da ogni quadratura drammaturgica e rendere accettabile qualsivoglia forzatura o conto aperto col libretto. È altresì vero che al “concetto”, debole o solidissimo che sia, devono seguire i fatti, e sotto questo punto di vista Michieletto è una macchina da guerra.
Qui una regia c’è e si vede, ed è una regia di gran livello. L’azione è sempre perfettamente coordinata, non ci sono buchi o cali di tensione nel ritmo e l’inventiva nelle soluzioni sceniche è più rigogliosa che mai. Ci mettono il carico il solito, impagabile, Paolo Fantin (scene, che sono meravigliose), Agostino Cavalca, che disegna i costumi, e Alessandro Carletti alle luci.
Tuttavia, a voler spaccare il capello in quattro, c’è un po’ di michielettismo di maniera anche in questo lavoro, con il ricorso a molti dei riempitivi ricorrenti del suo modo di fare teatro (coriandoli luccicanti, terra e sangue colante, nevrosi alla rinfusa nei momenti in cui c’è da caricare di patetismo la recitazione, simboloni “grandi così” a mo’ di spiegone per il pubblico più svanito) che hanno il difetto di spingersi sempre un passo più in là del necessario, tracimando nel didascalico o nella ridondanza. Le proiezioni realizzate da Rocafilm, che per l’intera durata dell’opera ricordano l’infanzia di una Gilda costretta controvoglia agli arresti domiciliari per scampare al mondo brutto e cattivo, entrano in questo scatolone del “too much”.
Rispetto all’esordio, pare più oliato il versante musicale, a partire dalla direzione di Daniele Callegari, che mantiene una linea asciutta e per nulla indulgente verso le abitudini della tradizione, espungendo puntature, modulazioni spurie e acuti e prediligendo tempi più svelti di quanto si sia soliti ascoltare. D’altronde in questa occasione Callegari modella il battito con maggior flessibilità e condiscendenza per il canto, fatti salvi alcuni punti che ancora danno la sensazione di non accomodare i fiati o l’articolazione delle voci (su tutti Veglia o donna e l’Allegro che apre il quartetto del terz’atto). È per altro ottima la cura del suono generale, con un’orchestra in splendida forma, e il bilanciamento dei volumi, che in genere nella sala della Fenice tendono sempre a privilegiare la buca sul palco.
A guadagnarci è in primis Luca Salsi, che può ammorbidire e legare un canto che è sempre chiaroscurato e fortemente espressivo nella declamazione, ma meno spigoloso rispetto alla prova del '21. Ivan Ayon Rivas, Duca di Mantova, ad ogni prova dà segnali di crescita non solo in una tenuta di palco sempre più smaliziata, ma anche nei mezzi vocali che, pur senza perdere nulla in termini di squillo e bellezza timbrica, hanno acquisito volume e proiezione. C’è poi una qualità preziosa in Rivas: è un cantante coraggioso, cosa che sì, talora lo porta talora a eccedere, ma che scongiura il rischio di prevedibilità e l’effetto “compitino” che in parti così frequentate è sempre in agguato. Più convenzionale ma assolutamente positiva è la prova di Maria Grazia Schiavo, Gilda di timbro leggero che si espande nell’ottava acuta e altresì musicalmente pulitissima.
Mattia Denti si conferma affidabile nella parte di Sparafucile, Marina Comparato è una Maddalena più chiara ed elegante - sia nel canto, sia in scena - di quanto si sia soliti ascoltare. Carlotta Vichi si disimpegna egregiamente nelle vesti di Giovanna, Gianfranco Montresor è un Monterone che la regia pone a specchio di fronte a Rigoletto. Completano egregiamente il cast Armando Gabba (Marullo), Roberto Covatta (Matteo Borsa), Matteo Ferrara e Rosanna Lo Greco, rispettivamente Conte di Ceprano e consorte, Nicola Nalesso (usciere) e Sabrina Mazzamuto, paggio della duchessa. Impeccabile la prova del Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani.
A fine recita trionfo per tutta la compagnia con punte di entusiasmo per il protagonista. Sonore contestazioni da parte del pubblico all’uscita del team creativo.
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