Messo da parte l’elemento mistico-religioso, nel Mefistofele firmato da Moshe Leiser e Patrice Caurier in scena al Teatro La Fenice, l’attimo fuggente, e con esso la salvezza per Faust, è nell’arte, attraverso cui egli riesce a sbarazzarsi del lato oscuro in cui ha cercato invano l'ebbrezza e la fuga dai dolori dell’esistenza. C'è forse un po' di moralismo, se non di vero e proprio buonismo, in questo riscatto dell'artista-intellettuale, nichilista e tormentato, nella “bellezza eterna”, ma d'altro canto bisogna ammettere che l'apoteosi finale del dottore che ascende al cielo imbracciando un violoncello nello spazio sicuro della propria stanza ha una forza evocativa cui si cede volentieri.
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Rinunciando, come detto, alla dimensione religiosa, il personaggio di Mefistofele diventa qualcosa di difficilmente inquadrabile. Se non è propriamente il lato Hyde di Faust, e potrebbe ben esserlo, egli è il burattinaio che muove le sue azioni più sconsiderate e autodistruttive. Per certi versi pare persino incarnare la pulsione creatrice e distruttiva dell’artista-musicista stesso, come suggerirebbe il curioso rapporto metateatrale che instaura con l’interprete, nel caso specifico il direttore d’orchestra.
Certo la relazione di coincidenza simbiotica tra tentato e tentatore rende Faust e Mefistofele due facce della stessa personalità, come se quest’ultimo, piuttosto che un'entità vera e propria, fosse combinato disposto di una società che trabocca di inciampi e facili seduzioni e di un'anima fragile particolarmente predisposta a cedervi.
Leiser e Caurier portano avanti questa narrazione senza nascondere, anzi, esacerbando il lato kitsch-grottesco dell’opera - Marta e Mefistofele che tubano a bordo di un maiale volante è esilarante - e d’altro canto inserendovi un discorso politico di strettissima attualità, evocata esplicitamente con i suoi orrori quotidiani che fomentano il senso di smarrimento dell’umanista Faust.
Insomma il diavolo si annida nei dettagli... del capitalismo. Il mondo, con le sue brutture e le scappatoie (l'alcol, la droga, il sesso sfrenato), con i suoi idoli profani come lo sport e ovviamente i soldi, con la pubblicità e la televisione, ma anche con le espressioni alte dell’ingegno umano, è disseminato di trappole che Faust calpesta una dopo l'altra, un po’ per alienarsi dalla realtà, un po’ alla ricerca del senso dell’esistenza.
Chiaramente un approccio così radicale comporta delle semplificazioni che tradiscono un paternalismo di fondo che probabilmente va ben oltre le intenzioni dei registi, i quali, al netto delle scelte drammaturgiche e del messaggio, si dimostrano professionisti di prim'ordine nel manovrare le masse e dirigere i solisti. Questo Mefistofele è altresì uno spettacolo che sul versante tecnico funziona benissimo, con un inserimento ben calibrato di figuranti e coreografie (Beate Vollack) e con un disegno luci meraviglioso (Christophe Forey). Anche le proiezioni di Etienne Guiol, a tratti didascaliche, regalano un paio di momenti toccanti: vedere nel sabba romantico la sala della Fenice avvolta dalle fiamme, seppur virtuali, ha provocato una stretta al cuore in più di qualcuno tra i presenti.
Dati i giusti meriti al comparto scenico, va detto che lo spettacolo regge sulle spalle del protagonista Alex Esposito, che a ogni prova ridefinisce in positivo l'ottimo ricordo che se ne aveva. Esposito è ormai maturato a un rango di artista in cui canto, gesto e parola sono un tutt'uno inscindibile, espressione di un istinto teatrale infallibile. Limitarsi a dire di uno strumento dal volume dominante e malleabile, che passa dalla mezzavoce al grido per scolpire a fuoco ogni parola, sarebbe fare torto a un interprete che ormai “canta” con tutto il corpo, che balla, che non spreca un gesto neanche quando gli tocca di stare in disparte.
Piero Pretti, messo di fronte a una parte lunga e pesante come quella di Faust, si difende con onore. Il gusto è, al solito, elegante, le note ci sono tutte così come non manca mai né il volume, né lo squillo, tuttavia alcuni passaggi patiscono una certa perdita di smalto e di precisione nell’intonazione.
Non è nella migliore delle sue serate Maria Agresta, Margherita, che dà l'impressione di affrontare la parte con una cautela che da un lato ne ingessa l'espressività e dall'altro la tradisce nel momento topico della grande aria. Maria Teresa Leva è una Elena molto più che corretta e dotata di una voce che svetta soprattutto nell’ottava alta. Completano il cast Kamelia Kader, che ben si disimpegna nella doppia veste di Marta e di un’anziana Pantalis e Enrico Casari, Wagner/Nereo.
Il Coro della Fenice preparato da Alfonso Caiani, dopo una partenza zoppicante, va acquisendo compattezza e precisione in corso di recita e dimostra di saper soddisfare al meglio anche le indicazioni dei registi. Eccellente sotto ogni punto di vista la prova dei Piccoli Cantori Veneziani istruiti da Diana D’Alessio.
Dalla buca Nicola Luisotti assicura compattezza alla narrazione e tiene bene insieme, senza sbavature o scollamenti, solisti, masse corali, banda e un’orchestra in ottima forma, ma accompagna con mano tutt'altro che leggiadra e senza troppa fantasia, tanto più se si pensa a quanto si potrebbe cavare da una partitura in cui il cattivo gusto e il grottesco sono potenzialmente grandiose risorse teatrali.
Interessante la scelta di adottare l'edizione critica di Antonio Moccia che ripercorre la versione che venne data al Teatro Rossini di Venezia nel 1876, in cui Boito aggiunse la fuga nella ridda infernale e l’aria di Margherita “Spunta l’aurora pallida” nella scena del carcere, già presente nell’edizione di Bologna del 1875.
A fine recita trionfo come se ne ricordano pochi nella storia recente della Fenice, con la platea in piedi ad applaudire entusiasticamente l’intera compagnia e in particolar modo Alex Esposito.
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