17 maggio 2019

Falstaff al Real

Più che un anziano allo sfascio, Roberto de Candia è un signore di mezza età che sta invecchiando male, un barbone sudicio che negli ultimi anni si è dimenticato di prendersi cura di sé. Non ha niente di nobile – eccezion fatta per la vocalità, perché de Candia sa cantare, eccome se sa cantare! – ma ha piuttosto l’aria del banditello di periferia, di quelli che passano le giornate nella bettola di quartiere a intrallazzare bische e furtarelli con gli sgherri, due bulletti in là con gli anni (impagabile il Pistola di Valeriano Lanchas, che ricorda vagamente il fumettaro dei Simpsons). Il suo è un piccolo mondo squallido in fondo, ma non è che quello dei ricchi Ford e Company sia meno avvilente, perché sì, cambiano le disponibilità, ma la grettezza morale piccolo borghese di chi gode nel bullizzare il vecchio John è pari se non superiore.



Insomma Laurent Pelly la vede più o meno così. Non inventa e non svela niente di nuovo, ma rispolvera la tradizione con il suo tocco personale, che è quello del regista di talento. Lo si vede da come “concerta” l’azione dei pezzi d’insieme, calibrando i movimenti sulla musica, o da come sa riempire tempi e palco pur senza eccedere nella misura. Volete capire se un regista ci sa fare o è un impostore? Ebbene, guardate come manovra il coro: quello che Pelly fa fare all’esercito dei coloni del Signor Ford mentre mette a soqquadro la casa per scovare Falstaff è puro godimento, ogni gesto sfrutta un accento o una modulazione musicale e l‘azione diventa una danza sulla partitura di Verdi. Bellissimo.

Le scene di Barbara de Limburg sono semplici ma tutt’altro che banali. La Giarrettiera è un pub da bassifondi, di casa Ford si vede l’elegante ingresso con scalinata mentre la foresta non è altro che una distesa vuota e buia, con uno specchio sagomato a fronde sul fondale che amplifica spazi ed ombre. Sul finale questo muro avanza e, mentre le luci si accendono, riflette sul palco il pubblico in sala. Quelli gabbati siamo tutti noi insomma.



Il cast è l’ideale per mettere insieme un Fastaff di livello: omogeneo e ben equilibrato, formato da cantanti affidabili che sanno essere ancor prima attori. Roberto de Candia è protagonista e mattatore della serata. Nonostante Pelly spinga le sue idee un poco oltre, quello di de Candia rimane un Falstaff fondamentalmente buono. Ci prova a fare la voce grossa, a suonare minaccioso, ma la sua indole sorridente e bonaria balza fuori inesorabilmente. Il che non significa affatto che gli difettino quelle ombrature malinconiche e amare che il personaggio esige, ci sono eccome, ma alla fine emerge sempre un’ottimistica bonomia di fondo. Del canto si è già fatto cenno. Detto in estrema sintesi: oggi è difficile ascoltare un Falstaff cantato così bene. Intonazione e musicalità sempre perfette, voce (chiara sì, dai tratti quasi Martin) timbrata e morbida, cesello di ogni parola, colori su colori. Una grande interpretazione.

Non si può apprezzare con altrettanto entusiasmo la prova di Simone Piazzola, Ford, che rispetto a qualche anno fa è molto più attore ma, almeno in questo periodo, meno cantante. Il che ha dei lati indubbiamente positivi: Piazzola pensa più al personaggio e meno alla voce, che tuttavia pare aver smarrito quello smalto che gli si ricordava.
La Alice di Rebecca Evans si mangia il palco e, in fondo, anche la scrittura tutt'altro che impossibile della parte. Meravigliosa la Nannetta di Ruth Iniesta che è eccellente attrice e cantante al pari grado: la voce è limpida e omogenea, i fiati comodissimi ma soprattutto (finalmente!) si ammira un’artista che emancipa la figlia dei Ford dallo stereotipo dell'adolescente santarellina, mettendoci una bella dose di malizia boccaccesca. Bene anche il Fenton di Joel Prieto che ha strumento ampio e di timbro assai gradevole ma che, a spaccare il capello in quattro, scivola in qualche nasalità di troppo e tira avanti sul tempo nella sua aria.

È una garanzia Daniela Barcellona, che pure non si limita al buon canto ma sa tratteggiare con simpatia una Quickly zitellona goffa con una certa inclinazione per l'alcol.
All’altezza Maite Beaumont, Meg, benissimo la coppia Bardolfo-Pistola: il primo è Mikeldi Atxalandabaso, un tenore squillante e spigliato, il secondo Valeriano Lanchas un basso tonante dalla faccia triste.
Convince un po' meno, pur senza demeritare, il Caius appannato di Christophe Mortagne.



Quanto a Daniele Rustioni, non si può certo dire che diriga male o che combini pasticci, tutt’altro, però Falstaff gli sta ancora largo. Non basta una direzione brillante e diligente per cogliere lo spirito dell’estremo capolavoro di Verdi, non bastano l’asciuttezza e l’entusiasmo. Certo la concertazione è buona, la tenuta ritmica (quasi) impeccabile, così come non sgarra mai il sostegno al palco, però il novanta percento di quel che si potrebbe strappare alla partitura rimane incastrato tra le pagine: colori, atmosfere, giochi, inflessioni, allusioni, invenzioni ritmiche o di articolazione e tutto il resto. In Falstaff c’è molto da cavare, è un'opera per musicisti vecchi e navigati e non si scappa. Come dice un grande direttore “Ci vuole tempo”, diamoglielo, non c’è fretta.

Meravigliosa la prova del Coro del Real preparato da Andrés Máspero che, oltre a cantare con una pienezza di pasta soggiogante, tiene il palco al meglio assecondando le invenzioni di Pelly.

Trionfo per tutti.

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