28 marzo 2019

Chung trissa Otello sette anni dopo la prima veneziana

Il 2012 stava terminando e il Teatro La Fenice apriva la stagione con una doppietta Verdi-Wagner per celebrare l’anno entrante dei bicentenari. Quel Tristano è finito presto in soffitta, forse non senza ragioni, mentre l’Otello-gemello di Francesco Micheli, dopo essere passato per il Cortile di Palazzo Ducale, torna a casa. Oggi come allora ci sono Myung-Whun Chung sul podio – in questi anni è diventato una presenza costante a Venezia, per il bene di orchestra e pubblico – e Carmela Remigio, mentre il resto è passato come passan le nuvole sul mare. Un’altra cosa rimane tuttavia invariata: quello di Otello non è il Chung più ispirato che si possa ascoltare. Certo i conti tornano dall’inizio alla fine, la concertazione è meravigliosa con tanto bel suono e un virtuosismo facile facile anche nei grovigli del Fuoco di gioia o nell’uragano iniziale, però il teatro c’è e non c’è, o meglio la direzione non scavalla mai dall’ottima routine, in cui tutto è sorvegliato, soppesato e fluido, alla grande interpretazione. Pur nell’attenzione ai dettagli e agli equilibri, si percepisce una certa freddezza che nasce un po’ dall’asciuttezza dell’articolazione, che non è propriamente meccanica ma molto “pensata” sì, un po’ dalla brevità del respiro tragico.



Al netto di ciò l’orchestra (in gran forma) e il suo custode sono di gran lunga la cosa più interessante di questa ripresa, seguiti a ruota dallo Jago di Dalibor Jenis, il quale ha un approccio al canto che oscilla tra due estremi, il liederismo nella ricerca inesausta di colori e inflessioni e l’espressionismo nel marcare con violenza certe unghiate, ma è personaggio sfaccettato e compiuto. Chi ha nelle orecchie la registrazione di Dietrich Fischer-Dieskau ci pensa in più d’un occasione. Certo l’eloquenza è meno ricercata e l’emissione un po’ più laboriosa, ma il cesello delle vocali, l’infida e subdola malizia nel canto a fior di labbra o nello spaccare la sillaba in quattro e quattro ancora, così come certi trucchetti nel forzare l’accento nell’ottava grave, vanno esattamente in quella direzione.

Convince nel complesso anche Carmela Remigio, soprattutto dal concertato che chiude il terzo atto in avanti, perché a dispetto di una vocalità che difetta di ampiezza e polpa, la sua Desdemona ha carattere, femminilità e anche pregevoli idee d’interprete, sia nel canto, sia nella caratterizzazione. La Remigio è artista insomma, che oltre a fraseggiare e recitare con l’anima, sa dipingere un personaggio volitivo e “adulto”, che osa guardare negli occhi Otello senza retrocedere.

Il discorso per Marco Berti, protagonista, è diametralmente opposto. Avrebbe voce ideale per timbro, volume e squillo, ma spesso si ha l’impressione che manchi il resto. L’intonazione e la musicalità sono ballerine, la varietà di colori, dinamiche e intenzioni pressoché sacrificata in favore di un costante mezzoforte che volge ora al forte e ora allo sforzato. Chiaramente riescono più incisivi i momenti di sfogo, come l’Esultate o le sfuriate del secondo atto piuttosto che i brani di introspezione e malinconia: l’aria del terzo atto – in cui Berti si perde un po’ per strada – e il finale soffrono molto la mancanza di una più approfondita ricerca espressiva.

È una piacevolissima conferma Matteo Mezzaro, il quale è un Cassio vocalmente fresco e ben educato.

Le altre parti sono affidate a cantanti di casa nel teatro veneziano. Elisabetta Martorana, Emilia, è una sicurezza: solida vocalmente e in pieno dominio del palco. Antonello Ceron è un Roderigo volutamente pavido nella caratterizzazione ma spavaldo nel canto, Mattia Denti un imponente Lodovico, Matteo Ferrara un Montano robusto e sicuro.

Al solito molto positive le prove del Coro preparato da Claudio Marino Moretti, che pure eccede in esuberanza nel volume, e dei Piccoli Cantori Veneziani di Diana D’Alessio.

Resta da dire dello spettacolo firmato da Francesco Micheli (regia) ed Edoardo Sanchi (scene), che ha molte idee, forse qualcuna di troppo, ma poca incisività. C’è sì grande cura nei movimenti di masse e solisti, forse persino più di quanta ce ne fosse all’esordio, ma un po’ per la pochezza dell’impianto scenografico, un po’ per la ridondanza di certi rimandi eccessivamente didascalici a tratti lo spettacolo si perde per strada.

Ci sono passaggi congegnati con grande mestiere in cui tutto scorre fluidamente: tutto il primo atto ad esempio, il terzetto del terzo o il soffocamento finale, che è un momento di grande violenza (si parla molto di femminicidio, ebbene, sbatterlo così in faccia al pubblico fa male come un cazzotto, insomma è teatro vero). Accanto a ciò tuttavia fanno capolino diverse forzature in senso simbolista, talvolta suggestive, altre meno, che portano un contributo insignificante (o controproducente) alla drammaturgia. Vale per i mimi-ninja che acuiscono i tormenti dei numeri solistici, per certi riferimenti al mare e alla religione marcati con enfasi, per le sottolineature stereotipate dei tratti dei personaggi (Cassio non perde mai occasione di dimostrare quanto è turpe, Desdemona quanto è pia, Otello iracondo, Roderigo vile e così via).

Le scene fanno da contorno senza aggiungere molto, fatta salva una certa qual raffinatezza nel raccontare quella tipica commistione tra mondo cristiano e Medioriente della Cipro “veneziana”. Una serie di pannelli che richiama oroscopi e costellazioni circonda un cubo rotante che, quando rivela al pubblico il suo lato scoperto, mostra una stanza doviziosamente decorata. Esteticamente gradevoli i costumi di Silvia Aymonino.

Buon successo di pubblico.

18 marzo 2019

Un Elisir d'Amore tra Donizetti e Botero

Lo ammetto, ogni volta che incontro Claudia Pavone ne rimango conquistato. È bella, si mangia il palco e sa cantare: intonatissima, precisa, musicale, manovra il fiato come fosse una manopola per l’aria, eccetera eccetera. La Pavone è brava-bravissima insomma e i miei due spiccioli su di lei ce li scommetto volentieri. La voce è sì leggera – forse, a spaccare il capello in quattro, un po' troppo leggera per la tessitura di Adina, che gravita in basso soprattutto nel primo atto – ma è sana e fresca: corre in sala, svetta con facilità nell'ottava acuta e soprattutto, last but not least, esce dalla bocca di una signora musicista che sa fraseggiare e che non sgarra una nota neanche a pagarla. Applausi.



L’amato e amante giovane che le sta accanto nel circo donizettiano allestito sul palco del Verdi di Trieste è Francesco Castoro, un Nemorino dal solido presente e dal futuro ancora più promettente. La voce è di bel timbro espansivo, di quelli che già da soli disegnano un personaggio, il volume ragguardevole e la tecnica solida. C'è ancora qualcosa da limare (sarà anche per la tensione della prima), ma sono dettagli piccoli piccoli. Rispetto alle prove del passato Castoro è poi cresciuto in modo impressionante nella presenza scenica, che è oggi assai più disinvolta e sicura.

Leon Kim è un Belcore spaccone e marpione, insomma la classica caricatura del macho che ammicca alle fanciulle mentre si aggiusta il ciuffo o qualcos’altro; però funziona, un po’ perché le qualità vocali non mancano, un po’ perché c’è tutta la baldanza fisica che serve.

Veterano tra i giovani, Bruno De Simone è un Dulcamara di consumato mestiere che sa dire e accentare con esperienza. Se la cava bene anche Rinako Hara, una Giannetta brillante e simpatica.



Ciò che funziona meno in questo Elisir è la buca. Non la concertazione, né l’orchestra in realtà, che sono entrambe ben al di sopra del livello di guardia, quanto la direzione vera e propria, che pur nella sua sostanziale pulizia – d’accordo, Simon Krečič eccede un po’ nelle sonorità ma è cosa da poco – manca di spirito e mordente. Non è questione né di tempi, né di varietà dinamica o controllo, ma proprio di fantasia, poesia, articolazione. Anche l’accompagnamento al canto è troppo squadrato e rigido per il belcanto: tirare via così la Furtiva lagrima, senza ascoltare il tenore e aiutarlo nei fiati e nel fraseggio, è un peccato mortale.
Sono poi inaccettabili i soliti tagliuzzi anni ‘50 nei concertati “e in altri siti” che non fanno guadagnare praticamente niente in termini di tempo ma fanno perdere parecchio all’opera. Ciò detto, l’Orchestra del Verdi suona magnificamente sia come qualità dell’amalgama, sia come pulizia. Molto bene anche il Coro di Francesca Tosi, che si difende con onore anche nella recitazione.



Resta da dire dello spettacolo di Victor García Sierra che è coloratissimo, scorrevole ma, in fin dei conti, è la classica acqua senza sale che non fa né ben né male. Pensando a Botero, la vicenda viene ambientata in un circo, cosa che, oltre ad essere una forzatura – e chissenefrega! – non aggiunge granché a quanto già sappiamo sul magico elisire. Nemorino è il clown un po’ sfigato che si innamora della Adina/Moira Orfei che dirige la baracca, Belcore è un domatore di fiere e Dulcamara una sorta di imbonitore factotum. C’è destrezza nel manovrare solisti e masse, anche perché i cantanti sono tutti, chi più chi meno, attori validi e coro e comparse (tra cui due fondamentali mime/trapeziste che catalizzano il tutto) recitano anziché fare i paracarri, ed è già molto. Cosa manca dunque? Un po’ di freschezza nel gusto. C’è una “maniera” di fare l’opera buffa che ricalca stilemi e stereotipi sempre più o meno uguali a se stessi da decenni e decenni (ballettini, gigionate, ammiccamenti vari). Ci sta, ma si può anche provare a fare pulizia di qualche reliquia e allinearsi con il terzo millennio. Less is more.

Trionfo per tutti comunque.

14 marzo 2019

La Resurrezione di Chung

Quando Sara Mingardo attacca a mezzavoce Urlicht sul più che pianissimo dell’orchestra si trattiene il fiato per il timore di imbrattare quella magia. Lei degusta ogni sillaba tenendosela in bocca, la coccola e ammansisce con voce calda da fagotto, le parole galleggiano e vanno allargandosi una dopo l’altra. Una lezione d’arte e di tecnica.


Che il Lied del contralto coincida con l’acme emotivo della Resurrezione che Myung-Whun Chung dirige al Teatro La Fenice è questione opinabile quanto lo sono le impressioni soggettive, certo se vi si arriva con tanta predisposizione alla commozione è perché tutto ciò che lo precede non solo è “eseguito” dall’Orchestra della Fenice come ha fatto poche volte nella sua storia recente, forse mai, ma è soprattutto suonato con anima. Sarà sì “una musica così grande da racchiudere in sé il mondo”, sarà massimalismo sinfonico sfrenato e un po’ spudorato, ma non c’è istante in cui Chung riduca l’orgia mahleriana al solo effettismo, né laddove il suono si infrange come uno tsunami contro il legno della sala, né nei ceselli più teneri o dolenti. Con Chung tutto è dialettica, non c’è azione che si manifesti senza causa, non c’è calligrafia. Ma non c’è nemmeno la traduzione a grande affresco sinfonico-corale da colpo d’occhio.

Da quella cerimonia funebre sotto mentite spoglie che apre la Sinfonia, azzannata rabbiosamente – più che a un lamento pare una lotta strenua contro l’inevitabile –, fino all’apoteosi finale che, pur nel suo trionfalismo postwagneriano che si erge come una cattedrale di suono abbagliante, ha lo spessore spirituale dell’ascensione, tutto è teso, compatto. Il tre ottavi dell’Andante moderato combina la libertà del battito con una fusione dei colori che non ha niente di ricercato, ma pare sgorgare lì per lì come naturale estrinsecazione dell’orchestrazione, andando a caricarsi via via, dal pizzicato degli archi schernito da ottavino e arpe in avanti, di certo humor. Suona dunque inevitabile il passaggio a uno Scherzo che parte così sinistramente ridanciano da far pensare al Berlioz della Sinfonia Fantastica ma va poi velandosi man mano che si avvicina il canto malinconico del contralto.

Insomma con questa Resurrezione si raggiunge il vertice dell’ormai consolidata relazione “di fatto” tra Myung-Whun Chung e il teatro veneziano, quantomeno sul versante sinfonico, e soprattutto si dà prova di tutta la crescita tecnica che l’orchestra ha compiuto negli ultimi anni. Un po’ per il turnover naturale (solo tra gli archi tre prime parti su cinque sono acquisti recenti, chi più, chi meno), un po’ per l’apporto dei tanti aggiunti, che sono per lo più molto giovani e molto bravi, un po’ per la consuetudine in via di consolidamento con questo repertorio, fatto sta che il salto di qualità dei complessi della Fenice pare farsi stagione dopo stagione più tangibile. La frequentazione col taumaturgo del podio coreano fa il resto: ormai l’orchestra ha capito quale sia il suono di Chung e sa adattarvisi con una predisposizione ideale.

Lo scatto di qualità per un’orchestra, un’orchestra prevalentemente operistica per di più, lo si può dire compiuto quando amalgama e trasparenza vanno al servizio di una flessibilità che abbia nulla di forzato o incespicante. E per seguire Chung è necessario esserne capaci, perché scandisce il tempo con libertà tutta sua, allargando o stringendo le misure con dei minuscoli furti o regali al tempo conseguiti a rotazione del braccio. Il resto è prodigiosa arte di concertatore, che evidentemente viene tutta preconfezionata in sede di prova perché la sinistra Chung quasi non la adopera, se non per ammorbidire qualche fraseggio o manovrare il coro. Non ha bisogno di aggiustare equilibri o mettere in pari dei volumi sbilanciati, tutto viene da sé. E viene alla perfezione, perché pur nel marasma orchestrale non c’è linea che affoghi sotto alle altre, o che strilli per uscire.

Certo giova la conoscenza reciproca tra maestro e musicisti, che ormai si capiscono e sanno cosa possono chiedersi e darsi reciprocamente. E tutti infatti danno il meglio di sé, al punto da azzardare il sospetto che per un professore d’orchestra suonare a tal modo sia prima un piacere che un mestiere. Tanti colori, flessibilità, lucentezza. Gli archi compattissimi e puliti non buttano via niente e vanno insieme come un unico organismo dall’inizio alla fine, i legni non tradiscono la ricchezza coloristica della scrittura, gli ottoni – che nella Resurrezione sono tanti ed esposti – si coprono di gloria. Senza far torto agli altri piace citare una sezione dei tromboni che può fare invidia a formazioni ben più prestigiose.

Della Mingardo si è già detto: ha voce di puro velluto, un controllo del fiato prodigioso e musicalità da artista superiore. Le è degna compagna Zuzana Markovà che, seppur più convenzionale nel pennellare i suoni, non rinuncia a modellare la dinamica di un canto che si espande soprattutto nell’ottava alta.

Il Coro della Fenice è in forma strepitosa, ma qui più ancora che in altre prove si apprezza la mano di Claudio Marino Moretti nel fondere e amalgamare i registri.

Trionfo per tutti.

1 marzo 2019

La sinfonia immaginaria

Cosa sia una sinfonia immaginaria lo racconta il nome stesso. Una Symphonie imaginaire non esiste, è un’utopia, forse una stortura. Marc Minkowski ne ha creata una mettendo insieme brani d’ogni sorta di Jean-Philippe Rameau – si va dall’Ouverture di Zaïs ai Preludi d’atto de Les Boréades, dall’aria di Telaire alla musica da danza, fino all’apoteosi finale da Les indes galantes – quasi a formare un album fotografico della sua produzione. Istantanee di una vita intera messe una dietro l’altra. L’intento è chiaramente più divulgativo che musicologico in senso stretto, ma ha due grandi pregi: innanzitutto quella che si ascolta è musica elevatissima che appaga i sensi tutti, poi permette allo spettatore meno avvezzo al repertorio settecentesco francese di farsi un’idea generale ma centrata dell’estetica di uno dei suoi massimi esponenti. E magari di innamorarsene o quantomeno accorgersi che esiste. Nella Symphonie imaginaire c’è, se non tutto, molto di Rameau: l’inventiva, la varietà di linguaggi ed espressioni ma anche di forme, l’immaginario e l’incisività teatrale del suo stile, la forza emotiva (la Scena funebre da Castor et Pollux è tra le musiche più intense che siano mai state concepite). Insomma la Symphonie imaginaire è una sorta di greatest hits, che certo risulta disomogenea quanto a coerenza, e non potrebbe essere altrimenti visto che abbraccia epoche e fonti disparate, ma dal fascino innegabile.



Il fatto che poi Les Musiciens du Louvre la conoscano a memoria aiuta a rendere ogni piega recondita, d’altronde la suonano dacché è nata e l’hanno consegnata anche al disco nel 2005. Strumentalmente perfetti (ottoni naturali e legni così puliti, tanto di cappello!), plastici nella paletta timbrica quanto non ci si aspetterebbe mai da un’orchestra antica, strutturati per amalgama e precisione. Un livello altissimo.

L’approccio di Minkowski è sovrapponibile, per indole e intenti, anche nella Suite dal balletto Don Juan ou Le Festin de pierre di Christoph Willibald Gluck. Non certo perché non colga le differenze stilistiche tra i due mondi, quanto per la freschezza di svolgimento. Minkowski è sì un musicista di prim’ordine che certo non deve prendere lezioni da nessuno in materia di musica preromantica e di prassi esecutiva, ma il suo è un metodo tutt’altro che cattedratico o ingessato. Ha in sintesi l’affabilità, e soprattutto l’intelligenza, di chi sa che la musica del passato, più o meno remoto, deve raccontare qualcosa al presente se vuole scavallare dall’archeologia all’arte. Lui questo salto lo sa accompagnare e catalizzare, sia nella narrazione sonora, sia in quella verbale: è egli stesso narratore e intrattenitore, che racconta, spiega, introduce e ammicca quanto basta. Un po’ alla Leonard Bernstein in sintesi.

Quanto all’esecuzione, vi si apprezza una perfezione strutturale talmente cesellata da passare quasi inosservata: gli equilibri interni sono stupefacenti sia nell’orchestra (un clavicembalo così morbido e ben appoggiato sul suono orchestrale non balza all’orecchio, ma è cosa di grande raffinatezza il cui merito va condiviso con chi lo suona, Francesco Corti) sia nei dialoghi con i soli che vengono schierati su un palco di barcaccia. Le schermaglie amorose tra l’oboe e il flauto nella Serenata sono sublimi.

Certo il Gluck che fa Minkowski è molto acceso e teatrale, dunque poco canoviano, e proprio in ragione di questo vi emerge con enfasi il gesto musicale che si fa racconto (e si pensa spesso al Don Giovanni mozartiano che verrà: lo stacco al tempo largo nella morte del Commendatore pare arrivare direttamente da qui).

Grande successo di pubblico, con la celebre Danse des Sauvages da Les Indes galantes bissata tra i battimani.