Quando Sara Mingardo attacca a mezzavoce Urlicht sul più che pianissimo dell’orchestra si trattiene il fiato per il timore di imbrattare quella magia. Lei degusta ogni sillaba tenendosela in bocca, la coccola e ammansisce con voce calda da fagotto, le parole galleggiano e vanno allargandosi una dopo l’altra. Una lezione d’arte e di tecnica.
Che il Lied del contralto coincida con l’acme emotivo della Resurrezione che Myung-Whun Chung dirige al Teatro La Fenice è questione opinabile quanto lo sono le impressioni soggettive, certo se vi si arriva con tanta predisposizione alla commozione è perché tutto ciò che lo precede non solo è “eseguito” dall’Orchestra della Fenice come ha fatto poche volte nella sua storia recente, forse mai, ma è soprattutto suonato con anima. Sarà sì “una musica così grande da racchiudere in sé il mondo”, sarà massimalismo sinfonico sfrenato e un po’ spudorato, ma non c’è istante in cui Chung riduca l’orgia mahleriana al solo effettismo, né laddove il suono si infrange come uno tsunami contro il legno della sala, né nei ceselli più teneri o dolenti. Con Chung tutto è dialettica, non c’è azione che si manifesti senza causa, non c’è calligrafia. Ma non c’è nemmeno la traduzione a grande affresco sinfonico-corale da colpo d’occhio.
Da quella cerimonia funebre sotto mentite spoglie che apre la Sinfonia, azzannata rabbiosamente – più che a un lamento pare una lotta strenua contro l’inevitabile –, fino all’apoteosi finale che, pur nel suo trionfalismo postwagneriano che si erge come una cattedrale di suono abbagliante, ha lo spessore spirituale dell’ascensione, tutto è teso, compatto. Il tre ottavi dell’Andante moderato combina la libertà del battito con una fusione dei colori che non ha niente di ricercato, ma pare sgorgare lì per lì come naturale estrinsecazione dell’orchestrazione, andando a caricarsi via via, dal pizzicato degli archi schernito da ottavino e arpe in avanti, di certo humor. Suona dunque inevitabile il passaggio a uno Scherzo che parte così sinistramente ridanciano da far pensare al Berlioz della Sinfonia Fantastica ma va poi velandosi man mano che si avvicina il canto malinconico del contralto.
Insomma con questa Resurrezione si raggiunge il vertice dell’ormai consolidata relazione “di fatto” tra Myung-Whun Chung e il teatro veneziano, quantomeno sul versante sinfonico, e soprattutto si dà prova di tutta la crescita tecnica che l’orchestra ha compiuto negli ultimi anni. Un po’ per il turnover naturale (solo tra gli archi tre prime parti su cinque sono acquisti recenti, chi più, chi meno), un po’ per l’apporto dei tanti aggiunti, che sono per lo più molto giovani e molto bravi, un po’ per la consuetudine in via di consolidamento con questo repertorio, fatto sta che il salto di qualità dei complessi della Fenice pare farsi stagione dopo stagione più tangibile. La frequentazione col taumaturgo del podio coreano fa il resto: ormai l’orchestra ha capito quale sia il suono di Chung e sa adattarvisi con una predisposizione ideale.
Lo scatto di qualità per un’orchestra, un’orchestra prevalentemente operistica per di più, lo si può dire compiuto quando amalgama e trasparenza vanno al servizio di una flessibilità che abbia nulla di forzato o incespicante. E per seguire Chung è necessario esserne capaci, perché scandisce il tempo con libertà tutta sua, allargando o stringendo le misure con dei minuscoli furti o regali al tempo conseguiti a rotazione del braccio. Il resto è prodigiosa arte di concertatore, che evidentemente viene tutta preconfezionata in sede di prova perché la sinistra Chung quasi non la adopera, se non per ammorbidire qualche fraseggio o manovrare il coro. Non ha bisogno di aggiustare equilibri o mettere in pari dei volumi sbilanciati, tutto viene da sé. E viene alla perfezione, perché pur nel marasma orchestrale non c’è linea che affoghi sotto alle altre, o che strilli per uscire.
Certo giova la conoscenza reciproca tra maestro e musicisti, che ormai si capiscono e sanno cosa possono chiedersi e darsi reciprocamente. E tutti infatti danno il meglio di sé, al punto da azzardare il sospetto che per un professore d’orchestra suonare a tal modo sia prima un piacere che un mestiere. Tanti colori, flessibilità, lucentezza. Gli archi compattissimi e puliti non buttano via niente e vanno insieme come un unico organismo dall’inizio alla fine, i legni non tradiscono la ricchezza coloristica della scrittura, gli ottoni – che nella Resurrezione sono tanti ed esposti – si coprono di gloria. Senza far torto agli altri piace citare una sezione dei tromboni che può fare invidia a formazioni ben più prestigiose.
Della Mingardo si è già detto: ha voce di puro velluto, un controllo del fiato prodigioso e musicalità da artista superiore. Le è degna compagna Zuzana Markovà che, seppur più convenzionale nel pennellare i suoni, non rinuncia a modellare la dinamica di un canto che si espande soprattutto nell’ottava alta.
Il Coro della Fenice è in forma strepitosa, ma qui più ancora che in altre prove si apprezza la mano di Claudio Marino Moretti nel fondere e amalgamare i registri.
Trionfo per tutti.
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