1 marzo 2019

La sinfonia immaginaria

Cosa sia una sinfonia immaginaria lo racconta il nome stesso. Una Symphonie imaginaire non esiste, è un’utopia, forse una stortura. Marc Minkowski ne ha creata una mettendo insieme brani d’ogni sorta di Jean-Philippe Rameau – si va dall’Ouverture di Zaïs ai Preludi d’atto de Les Boréades, dall’aria di Telaire alla musica da danza, fino all’apoteosi finale da Les indes galantes – quasi a formare un album fotografico della sua produzione. Istantanee di una vita intera messe una dietro l’altra. L’intento è chiaramente più divulgativo che musicologico in senso stretto, ma ha due grandi pregi: innanzitutto quella che si ascolta è musica elevatissima che appaga i sensi tutti, poi permette allo spettatore meno avvezzo al repertorio settecentesco francese di farsi un’idea generale ma centrata dell’estetica di uno dei suoi massimi esponenti. E magari di innamorarsene o quantomeno accorgersi che esiste. Nella Symphonie imaginaire c’è, se non tutto, molto di Rameau: l’inventiva, la varietà di linguaggi ed espressioni ma anche di forme, l’immaginario e l’incisività teatrale del suo stile, la forza emotiva (la Scena funebre da Castor et Pollux è tra le musiche più intense che siano mai state concepite). Insomma la Symphonie imaginaire è una sorta di greatest hits, che certo risulta disomogenea quanto a coerenza, e non potrebbe essere altrimenti visto che abbraccia epoche e fonti disparate, ma dal fascino innegabile.



Il fatto che poi Les Musiciens du Louvre la conoscano a memoria aiuta a rendere ogni piega recondita, d’altronde la suonano dacché è nata e l’hanno consegnata anche al disco nel 2005. Strumentalmente perfetti (ottoni naturali e legni così puliti, tanto di cappello!), plastici nella paletta timbrica quanto non ci si aspetterebbe mai da un’orchestra antica, strutturati per amalgama e precisione. Un livello altissimo.

L’approccio di Minkowski è sovrapponibile, per indole e intenti, anche nella Suite dal balletto Don Juan ou Le Festin de pierre di Christoph Willibald Gluck. Non certo perché non colga le differenze stilistiche tra i due mondi, quanto per la freschezza di svolgimento. Minkowski è sì un musicista di prim’ordine che certo non deve prendere lezioni da nessuno in materia di musica preromantica e di prassi esecutiva, ma il suo è un metodo tutt’altro che cattedratico o ingessato. Ha in sintesi l’affabilità, e soprattutto l’intelligenza, di chi sa che la musica del passato, più o meno remoto, deve raccontare qualcosa al presente se vuole scavallare dall’archeologia all’arte. Lui questo salto lo sa accompagnare e catalizzare, sia nella narrazione sonora, sia in quella verbale: è egli stesso narratore e intrattenitore, che racconta, spiega, introduce e ammicca quanto basta. Un po’ alla Leonard Bernstein in sintesi.

Quanto all’esecuzione, vi si apprezza una perfezione strutturale talmente cesellata da passare quasi inosservata: gli equilibri interni sono stupefacenti sia nell’orchestra (un clavicembalo così morbido e ben appoggiato sul suono orchestrale non balza all’orecchio, ma è cosa di grande raffinatezza il cui merito va condiviso con chi lo suona, Francesco Corti) sia nei dialoghi con i soli che vengono schierati su un palco di barcaccia. Le schermaglie amorose tra l’oboe e il flauto nella Serenata sono sublimi.

Certo il Gluck che fa Minkowski è molto acceso e teatrale, dunque poco canoviano, e proprio in ragione di questo vi emerge con enfasi il gesto musicale che si fa racconto (e si pensa spesso al Don Giovanni mozartiano che verrà: lo stacco al tempo largo nella morte del Commendatore pare arrivare direttamente da qui).

Grande successo di pubblico, con la celebre Danse des Sauvages da Les Indes galantes bissata tra i battimani.

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