20 febbraio 2018

Rhapsody in Blue

La giovinezza non è mai un merito ma molto spesso è una fortuna. Lo è e lo è stata per il Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone - teatro “adolescente”, con i suoi tredic’anni scarsi d’età - e per il suo pubblico, che con esso si è formato ed è cresciuto. La buona sorte nel caso specifico è coincisa con una tradizione pressoché nulla e con la mancanza di un vero e proprio zoccolo duro di pubblico che indirizzasse, con il consenso o il mugugno, le scelte artistiche. Su questo terreno, grezzo ma fertilissimo, le cure radicali e coraggiose di Maurizio Baglini hanno sortito effetti tangibili, tant’è che oggi al Verdi si può godere di un repertorio raffinato ed eterogeneo che i pordenonesi, dopo qualche resistenza iniziale, sanno apprezzare e divorare. Potrebbe sembrare scontato, ma purtroppo non lo è affatto: altrove - nemmeno troppo lontano - vi sono esempi lampanti di quanto un pubblico ostinatamente reazionario e impenetrabile, magari assecondato da direzioni artistiche pigre, possa soffocare la crescita di un teatro, sradicandolo dal tempo e dalla storia. E sappiamo bene quanto un teatro incida sulla vita culturale di una città e in che misura la possa indirizzare.

Dopo il recital monografico di Debussy e il Novecento polacco di Penderecki e soci, al Verdi è la volta dell’America di Gershwin, Duke Ellington e Leonard Bernstein, il quale nasceva proprio cent’anni fa.

Questo viaggio nello swing è guidato da John Axelrod, sul podio di una Filarmonica Arturo Toscanini che non è certo una nuova conoscenza per il pubblico pordenonese - fu proprio essa ad inaugurare il teatro, sotto la bacchetta di Lorin Maazel, nel 2005 - ma che mancava in città da qualche tempo. Non la ascoltavo da diversi anni e ne sono rimasto colpito; ho ritrovato una Toscanini assai più rifinita nella qualità del suono rispetto a quanto ricordassi, più nitida, plastica e scattante. Complice un lavoro di concertazione minuzioso e il rodaggio del concerto (due date a Parma prima della trasferta), alla notevolissima brillantezza del suono, cosa che non è poi così sorprendente considerato il plotone di ottoni schierato sul palco, si aggiungono una precisione e una solidità ritmica tutt’altro che scontate.

John Axelrod si muove nel suo elemento naturale (discepolo di Bernstein, nasce rockettaro). Ci crede, si diverte e non cede mai alla tentazione di suonare questo repertorio “all’europea”, ma lo sporca, stiracchia le battute quanto basta pur riuscendo a tenere tutto insieme senza sbavare una nota. Forse questa musica non è poi così ardua da eseguire, sicuramente è difficile da “suonare”, eppure Axelrod ci riesce, sa darle significato, ha lo swing giusto; si sente e si vede in Harlem: con la destra batte il tempo per l’orchestra e con la sinistra ritarda leggermente il fraseggiare della tromba. Ma anche lo stacco adrenalinico del Mambo sulla chiusa dello Scherzo nelle Danze Sinfoniche è travolgente, mentre lo è di meno allorché lo riprende, pasticciando un po’, come bis. L’effetto insomma è quello giusto. E certo, se tutto funziona a dovere, c’è molto da riconoscere alla qualità dell’orchestra, la cui tenuta è saldissima. Se è vero che i fiati la fanno da padrone, la spina dorsale di questa musica sono le percussioni e qui le percussioni suonano ad altissimo livello.

Leonard Bernstein apre e chiude il concerto: Prelude, Fugue and Riffs mette subito in chiaro la qualità degli ottoni della Toscanini e permette all’ottimo clarinetto di Daniele Titti di prendersi i meritati applausi. Le Danze da On the Town e quelle di West Side Story - ma anche Harlem di Duke Ellington - dimostrano una sorprendente idiomaticità dell’orchestra, pur in un repertorio che si potrebbe sospettare lontanissimo dalla comfort zone di un ensemble italiano.

Anche Maurizio Baglini con la Rhapsody in Blue di George Gershwin fa una passeggiata al di fuori dei suoi consueti sentieri, eppure i risultati sono notevolissimi perché la purezza del tocco e l’estroversione sono quelle di sempre, cui si aggiunge un’attitudine jazz decisamente personale. Il doppio bis schumanniano è poi una vera e propria gemma: si sente che Baglini ama questo compositore dall’intensità che ne sa trarre e il fatto che abbia deciso di dedicargli molte delle sue energie è un’ottima notizia.

Teatro tutto esaurito e trionfo generale.

Recensione pubblicata su OperaClick

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