La Tosca che ha chiuso trionfalmente la stagione del Teatro Verdi di Trieste, dopo una tappa udinese giunge al Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone, per un inedito appuntamento estivo con l’opera. Il teatro infatti quest’anno ha scelto di prolungare l’attività anche nei mesi più caldi, proponendo una serie di appuntamenti che culmineranno, a metà agosto, con la residenza della Gustav Mahler Jugendorchester per la preparazione del tour estivo che toccherà, tra le altre, la città friulana stessa.
Foto Fabio Parenzan |
Rispetto alla prima triestina, che nel complesso aveva evidenziato qualche problema, la recita pordenonese mi è parsa assai più felice. Merito di un cast completamente rinnovato nelle parti principali ma anche del rodaggio dello spettacolo, che ha consentito di migliorare e rifinire un lavoro già promettente in partenza.
C’è poi un altro fattore da tenere presente: la sala del Verdi è estremamente generosa con le voci, di cui esalta armonici e volume, e “amplifica” il suono proveniente dalla buca con un curioso effetto stereofonico che sfavorisce le sedute più decentrate della platea ma offre al resto del pubblico una resa acustica di grande effetto. Se ne giova l’Orchestra del Verdi, capace di esprimere una ricchezza di colori e una morbidezza di suono persino superiori alle recenti prove nel melodramma a cavallo tra Ottocento e Novecento, che si conferma repertorio ideale per valorizzare le qualità dei complessi triestini. Oltre alla brillantezza complessiva dell’amalgama, che pur nella densità non inciampa mai in eccessi di pesantezza o ruvidezze, meritano un plauso gli ottimi interventi delle prime parti, su tutti il clarinetto che introduce l’aria del tenore nel terzo atto.
Le molte recite alle spalle hanno ulteriormente rafforzato il feeling dell’orchestra con Fabrizio Maria Carminati, il quale firma una Tosca che, oltre ad essere impeccabile nella concertazione – il suono è intrinsecamente bello e caldo, gli equilibri calibrati alla perfezione, il palco sempre ben sostenuto – è un eccellente esempio di teatro in musica, cioè quello che dovrebbe essere il fine ultimo di ogni direttore che si accosti al mondo operistico. Carminati ci riesce soprattutto grazie alla capacità di sviluppare la narrazione senza alcuna frattura nelle modulazioni di agogica, e vivacizzando sempre la misura con quel minimo di elasticità che scansi l’ombra del solfeggio o del mero accompagnamento.
Le cose vanno molto bene anche per quanto riguarda gli interpreti sulla scena. Francesca Tiburzi è una Tosca solida e convincente, la voce è ampia e di bel timbro scuro, quasi mezzosopranile, corposa nel medium eppure in grado di trovare sfogo in un registro acuto saldo e insolente. A fronte di mezzi vocali e tecnici di tale valore si avverte tuttavia la mancanza di un più capillare approfondimento del canto, in termini di colori e inflessioni, non tanto nel fraseggio quanto nel cesellare la parola e nell’incisività dell’accento.
Discorso simile per Luciano Ganci, Mario Cavaradossi dalla voce di bella pasta, soprattutto nel registro acuto che si espande luminoso e squillante, limpido nella dizione e dotato di un’apprezzabile schiettezza nel porgere. Proprio perché le qualità del mezzo sono fuori dal comune, è lecito chiedere un maggiore approfondimento del personaggio e il coraggio di osare anche qualche sfumatura in più: c’è insomma, nel canto di Ganci, la tendenza a risolvere tutto tra il forte e il mezzoforte, eccezion fatta per E lucevan le stelle, rifinita con espressività e varietà di dinamiche, che infatti si è guadagnata un lungo applauso a scena aperta. Non sembri un eccesso di pedanteria ma la giusta severità verso un artista che ha tutti i numeri per diventare uno degli interpreti italiani più interessanti della corda tenorile nei prossimi anni.
Può darsi che una certa prudenza fosse dovuta a condizioni di forma non ottimali, lo lasciano supporre qualche acuto schiacciato o non limpidissimo, ma anche l’aggiustamento del Si naturale sulla “i” anziché sulla “a” di “costasse”.
L'unico nome nuovo rispetto alle recite triestine è quello di Ruben Amoretti, Scarpia. La voce è da bass-baritone, scura e brunita nel registro medio-grave ma salda laddove la scrittura si fa scomoda per un basso puro. Al netto di qualche peculiarità d’emissione che potrebbe far storcere il naso ai vociomani più rigidi (alcuni suoni cavernosi nell’ottava grave, una certa ruvidezza del declamato nel canto di conversazione), quella di Amoretti è una prova di grande raffinatezza e intelligenza. Il suo Scarpia non è il “bigotto satiro” suggerito dal libretto ma un uomo affascinante, solidamente consapevole del proprio potere, autoritario e austero ma non privo di ironia (il dialogo con Tosca nel secondo atto, condotto con il sorrisetto beffardo di chi non crede a una sola parola di quanto gli viene raccontato, è cosa da interprete tutt’altro che banale). Anche la recitazione rifugge le grandi pose per concentrarsi sul piccolo gesto, sull’espressione del viso, e risulta pertanto assolutamente vincente.
Dario Giorgelè pare aver limato taluni eccessi nella caratterizzazione del Sagrestano sicché la sua prova convince pienamente, anche perché la voce c’è ed è anche assai ben padroneggiata.
Zoltán Nagy è un Angelotti corretto, Motoharu Takei uno Spoletta sicuro nel canto ma eccessivamente caricaturale nella recitazione. All’altezza della situazione Fumiyuki Kato, Sciarrone.
Giovanni Palumbo ha la sfortuna di incespicare in qualche bisticcio con il libretto negli interventi del Carceriere.
Si conferma bravissima la giovane Emma Orsini nei versi del Pastorello.
Sugli scudi anche il Coro del Verdi preparato da Francesca Tosi, protagonista di un finale di primo atto maiuscolo, così come si comportano assai bene I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro.
Per quanto riguarda le considerazioni sull’allestimento, interamente firmato da Hugo de Ana, rimando alla recensione di Paolo Bullo, che condivido completamente.
Pubblico non folto ma entusiasta.
Nessun commento:
Posta un commento