31 maggio 2016

L’Amico Fritz di Mascagni al Teatro La Fenice

L’Amico Fritz non è opera dalle grandi finezze psicologiche e drammaturgiche: tutto è facile facile, di un’immediatezza che a tratti sconfina nella banalità e che, probabilmente, al pubblico odierno ha poco da dire. Applicare in blocco questa sensibilità remota e distante, senza porsi il problema di rinfrescarne i tratti o cercare una chiave di lettura che la renda più facilmente digeribile, è una prassi che difficilmente renderà il lavoro di Mascagni più popolare e “invitante”.

Tutte queste questioni non sembrano sfiorare minimamente Simona Marchini, regista dello spettacolo in scena al Teatro La Fenice. Ne esce l’ennesimo Fritz da cartolina, coloratissimo nella confezione ma dalle emozioni in bianco e nero, stereotipato e manierato nella cornice e nei contenuti.
Anziché cercare di sfumare i contorni ridefinendo questi personaggi tutti cuore e buoni sentimenti con un taglio più moderno, la Marchini esalta la dimensione idilliaca e arcadica dell’opera, rendendo il quadro ancor più ingenuo di quanto non sia già. La recitazione poi, ridotta al minimo indispensabile, è convenzionale e completamente slegata dalla musica e tende, non di rado, a scivolare nella caricatura. Nella piattezza generale emerge qualche momento di comicità involontaria.
Il bozzettismo delle scene di Massimo Checchetto, non ispiratissimo, è funzionale all’impostazione. Da dimenticare i costumi di Carlos Tieppo.



Se lo spettacolo regge il merito va soprattutto all’esperto Fabrizio Maria Carminati, il quale concerta con mestiere e ammirevole senso del teatro. Non ci sono particolari finezze né una ricerca di suoni ammalianti ma tanta concretezza: il palco è sostenuto con attenzione, la narrazione procede serrata e senza cali di tensione. Carminati ci crede e non teme di sporcarsi le mani con qualche sonorità ruvida e sfuocata, che ci scappa ma trova un suo senso nel disegno generale. L’Intermezzo che introduce il terzo atto, ad esempio, non esce come un prodigio di raffinatezze musicali ma è pervaso di una sincerità che conquista il pubblico. L’Orchestra della Fenice lo asseconda al meglio.

Se la cava complessivamente bene il cast, pur con qualche riserva. Alessandro Scotto Di Luzio è un Fritz dal timbro accattivante e di bella presenza. Carmela Remigio è la grande musicista e fraseggiatrice che conosciamo ma probabilmente non trova in Suzel il terreno migliore per mettere in luce le proprie doti. Non irreprensibile nel canto ma ben calato nel personaggio Elia Fabbian, David.

Teresa Jervolino si disimpegna con onore nei panni di Beppe. Convincono William Corrò, Hanezò, il Federico del giovane Alessio Zanetti (al debutto, bravo!) e la Caterina di Anna Bordignon.
Ineccepibili gli interventi del coro della Fenice preparato da Claudio Marino Moretti.

Merita un elogio il bravo Roberto Baraldi, primo violino, eccellente protagonista nel solo del primo atto e giustamente festeggiato da pubblico e colleghi.

16 maggio 2016

Una Bohème di buona tradizione al Verdi di Trieste

Si potrebbe facilmente liquidare La Bohème in scena al Teatro Verdi di Trieste relegandola nella negletta schiera del “vista una le hai viste tutte”. E un po’ di vero c’è, direbbe Pinkerton. Sarebbe facile ma anche affrettato perché sì, c’è la soffitta come in altre centomila Bohème, c’è un secondo quadro horror vacui e, nel terzo, una neve talmente finta che non ci crederebbe neanche il più semplice tra i cuori semplici, però c’è anche un lavoro di regia raffinato che pesca dei momenti felici.

Marco Gandini indovina ad esempio un finale toccante che, nonostante il tradizionalismo dell’impianto, risulta finemente calibrato nei movimenti e costruito sulla musica. Altre trovate sono meno originali, soprattutto laddove la commedia prevale sulla tragedia, alcune talmente logore che sarebbe stato meglio evitarle (Schaunard e Colline che fanno il verso a Musetta e Marcello dopo il valzer di lei, basta!) ma in fondo si sa, è molto più difficile far ridere che far piangere.

Le scene di Italo Grassi sono piacevoli anche se qualche limite di verosimiglianza lo soffrono (e quanto si nota in spettacoli così ossessivamente vincolati al libretto!). Belli i costumi disegnati da Anna Biagiotti.



Lana Kos è una Mimì convincente. La voce non è di quelle indimenticabili ma riempie senza difficoltà la sala, la solida tecnica le consente un’apprezzabile morbidezza nell’emissione. L’interprete è convenzionale ma efficace.

Rame Lahaj, Rodolfo, non è impeccabile nel canto (è stato poco bene e ha provato il minimo indispensabile, pare) ma, non di meno, si rivela artista di grande interesse. Fatta la tara dei piccoli problemi di intonazione e sostegno, rimane un cantante che si danna l’anima per dare senso a quanto va cantando, che fraseggia, sfuma e soprattutto sa tenere il palco. La voce è brillante anche se non grandissima e sale senza sforzo ad un registro acuto che pare facilissimo. Da risentire.

Piace senza riserve Marcello Rosiello, baritono che trova nell’ampiezza della vocalità l’arma più efficace per tratteggiare un Marcello impetuoso ed estroverso, dalla vitalità contagiosa. La Musetta di Marie Fajtova si lascia prendere talvolta la mano nel registro acuto, che esce più forzato di quanto sarebbe necessario, ma è per il resto un’eccellente Musetta.

Molto bravo Vincenzo Nizzardo, centratissimo Schaunard. Rimandato a settembre Ivan Šarić, Colline opaco. Dario Giorgelè trova la giusta misura per risolvere Benoît e Alcindoro senza scadere nel grottesco mentre Motoharu Takei lascia sbalorditi per la proiezione del suono nelle poche parole riservate a Parpignol. Hektor Leka, Giuliano Pelizon e Dax Velenich completano onorevolmente la compagnia.

Più problematica la buca. Complice probabilmente un insufficiente numero di prove, Renato Balsadonna sembra navigare a vista: il direttore fatica a controllare il volume orchestrale e a concertare con precisione, sicché spesso si ha l’impressione che palco e musica seguano strade indipendenti. La scelta dei tempi, tendenzialmente lenti, non aiuta la scorrevolezza dell’azione.
Ben figura, e non sorprende, il Coro del Verdi preparato da Fulvio Fogliazza. Bravi I Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro.

Buon successo di pubblico.


La Favorite di Donizetti al Teatro La Fenice

Capita ancora di ascoltare, più spesso di quanto si pensi, il vecchio ritornello secondo cui “per fare l’opera ci vogliono le voci”. Chiunque ne fosse convinto farebbe bene ad andare al Teatro La Fenice di Venezia per una replica de La Favorite, così da realizzare senza possibilità d’appello quanto le voci, all’opera, da sole possano ben poco.

Sì perché qui i cantanti ci sono e sono eccellenti ma a mancare clamorosamente è il teatro, sicché il tutto si risolve in un’occasione sprecata, sebbene le premesse per realizzare qualcosa di interessante ci fossero eccome. Innanzitutto il ripristino dell’originale lingua francese in luogo dell’orripilante traduzione italiana e l’adozione dell’edizione critica a cura di Rebecca Harris-Warrick, che dovrebbe garantire l’integralità del testo e la massima fedeltà alle intenzioni degli autori. Sarebbe poi all’altezza di un progetto tanto ambizioso anche il cast, composto da cantanti in grado di risolvere e valorizzare a pieno le specificità stilistiche e tecniche dell’opera.

Cosa non ha funzionato dunque? Innanzitutto la regia. L’idea su cui regge il lavoro di Rosetta Cucchi non è né buona né cattiva ma rimane appunto un’idea, abbozzata e nemmeno immediatamente comprensibile. La vicenda viene trasportata in una fantomatica società dell’avvenire, sessista e violenta, popolata da adepti invasati di una qualche setta dedita all’adorazione di una natura estinta. La Favorite diventerebbe dunque una storia di sopraffazione maschile su donne oggetto che vengono conservate prigioniere in teche di plastica, pronte all’uso. Il condizionale è d’obbligo perché ciò che si vede resta appunto una sequenza di intenzioni non svolte, di immagini sconnesse e frammentarie. Il lavoro sulla recitazione e sulla caratterizzazione dei personaggi infatti non sfiora minimamente il livello di galleggiamento e risulta a dir poco ingenuo nella gestione delle masse. Non c’è sviluppo, non c’è ritmo, non c’è una costruzione dell’azione sulla musica.

Le scene di Massimo Checchetto non sarebbero spiacevoli ma, in un simile contesto, risultano avulse dalla musica e non riescono a fondersi con il lavoro di regia per dare vita a uno spettacolo teatralmente efficace.



Come accennato vanno meglio le cose per quanto riguarda l’esecuzione musicale, benché in orchestra qualche problema lo si avverta. Non convince infatti nemmeno Donato Renzetti il quale, stranamente, fatica a trovare la giusta coesione strumentale e, soprattutto nei primi due atti, a concertare con precisione. Anche la discutibile gestione dei volumi sorprende, considerando l’esperienza e l’indiscutibile mestiere del maestro.

Nessuna riserva invece lambisce la prova di Veronica Simeoni che è una Leonor de Guzman di tutto rispetto. Il canto è morbido e facile in ogni registro, lo smalto vocale perfetto per valorizzare la scrittura della parte.

Non comincia benissimo John Osborn (Fernand) ma si riscatta con un quarto atto maiuscolo, impreziosito da un’esecuzione felicissima dell’aria.
Vito Priante, Alphonse XI, non mantiene sempre un’emissione immacolata ma fraseggia, sfuma e accenta con arte e intelligenza.

Simon Lim è un Balthazar notevole, Pauline Rouillard una discreta Inès. Riesce a impressionare, nelle poche battute riservate a Don Gaspar, il giovanissimo Ivan Ayon Rivas. Gli altri sono all’altezza della situazione.

Il coro preparato da Claudio Marino Moretti è, al solito, una garanzia.

Paolo Locatelli
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