16 maggio 2016

La Favorite di Donizetti al Teatro La Fenice

Capita ancora di ascoltare, più spesso di quanto si pensi, il vecchio ritornello secondo cui “per fare l’opera ci vogliono le voci”. Chiunque ne fosse convinto farebbe bene ad andare al Teatro La Fenice di Venezia per una replica de La Favorite, così da realizzare senza possibilità d’appello quanto le voci, all’opera, da sole possano ben poco.

Sì perché qui i cantanti ci sono e sono eccellenti ma a mancare clamorosamente è il teatro, sicché il tutto si risolve in un’occasione sprecata, sebbene le premesse per realizzare qualcosa di interessante ci fossero eccome. Innanzitutto il ripristino dell’originale lingua francese in luogo dell’orripilante traduzione italiana e l’adozione dell’edizione critica a cura di Rebecca Harris-Warrick, che dovrebbe garantire l’integralità del testo e la massima fedeltà alle intenzioni degli autori. Sarebbe poi all’altezza di un progetto tanto ambizioso anche il cast, composto da cantanti in grado di risolvere e valorizzare a pieno le specificità stilistiche e tecniche dell’opera.

Cosa non ha funzionato dunque? Innanzitutto la regia. L’idea su cui regge il lavoro di Rosetta Cucchi non è né buona né cattiva ma rimane appunto un’idea, abbozzata e nemmeno immediatamente comprensibile. La vicenda viene trasportata in una fantomatica società dell’avvenire, sessista e violenta, popolata da adepti invasati di una qualche setta dedita all’adorazione di una natura estinta. La Favorite diventerebbe dunque una storia di sopraffazione maschile su donne oggetto che vengono conservate prigioniere in teche di plastica, pronte all’uso. Il condizionale è d’obbligo perché ciò che si vede resta appunto una sequenza di intenzioni non svolte, di immagini sconnesse e frammentarie. Il lavoro sulla recitazione e sulla caratterizzazione dei personaggi infatti non sfiora minimamente il livello di galleggiamento e risulta a dir poco ingenuo nella gestione delle masse. Non c’è sviluppo, non c’è ritmo, non c’è una costruzione dell’azione sulla musica.

Le scene di Massimo Checchetto non sarebbero spiacevoli ma, in un simile contesto, risultano avulse dalla musica e non riescono a fondersi con il lavoro di regia per dare vita a uno spettacolo teatralmente efficace.



Come accennato vanno meglio le cose per quanto riguarda l’esecuzione musicale, benché in orchestra qualche problema lo si avverta. Non convince infatti nemmeno Donato Renzetti il quale, stranamente, fatica a trovare la giusta coesione strumentale e, soprattutto nei primi due atti, a concertare con precisione. Anche la discutibile gestione dei volumi sorprende, considerando l’esperienza e l’indiscutibile mestiere del maestro.

Nessuna riserva invece lambisce la prova di Veronica Simeoni che è una Leonor de Guzman di tutto rispetto. Il canto è morbido e facile in ogni registro, lo smalto vocale perfetto per valorizzare la scrittura della parte.

Non comincia benissimo John Osborn (Fernand) ma si riscatta con un quarto atto maiuscolo, impreziosito da un’esecuzione felicissima dell’aria.
Vito Priante, Alphonse XI, non mantiene sempre un’emissione immacolata ma fraseggia, sfuma e accenta con arte e intelligenza.

Simon Lim è un Balthazar notevole, Pauline Rouillard una discreta Inès. Riesce a impressionare, nelle poche battute riservate a Don Gaspar, il giovanissimo Ivan Ayon Rivas. Gli altri sono all’altezza della situazione.

Il coro preparato da Claudio Marino Moretti è, al solito, una garanzia.

Paolo Locatelli
© Riproduzione riservata






Nessun commento:

Posta un commento