Si potrebbe facilmente liquidare La Bohème in scena al Teatro Verdi di Trieste relegandola nella negletta schiera del “vista una le hai viste tutte”. E un po’ di vero c’è, direbbe Pinkerton. Sarebbe facile ma anche affrettato perché sì, c’è la soffitta come in altre centomila Bohème, c’è un secondo quadro horror vacui e, nel terzo, una neve talmente finta che non ci crederebbe neanche il più semplice tra i cuori semplici, però c’è anche un lavoro di regia raffinato che pesca dei momenti felici.
Marco Gandini indovina ad esempio un finale toccante che, nonostante il tradizionalismo dell’impianto, risulta finemente calibrato nei movimenti e costruito sulla musica. Altre trovate sono meno originali, soprattutto laddove la commedia prevale sulla tragedia, alcune talmente logore che sarebbe stato meglio evitarle (Schaunard e Colline che fanno il verso a Musetta e Marcello dopo il valzer di lei, basta!) ma in fondo si sa, è molto più difficile far ridere che far piangere.
Le scene di Italo Grassi sono piacevoli anche se qualche limite di verosimiglianza lo soffrono (e quanto si nota in spettacoli così ossessivamente vincolati al libretto!). Belli i costumi disegnati da Anna Biagiotti.
Lana Kos è una Mimì convincente. La voce non è di quelle indimenticabili ma riempie senza difficoltà la sala, la solida tecnica le consente un’apprezzabile morbidezza nell’emissione. L’interprete è convenzionale ma efficace.
Rame Lahaj, Rodolfo, non è impeccabile nel canto (è stato poco bene e ha provato il minimo indispensabile, pare) ma, non di meno, si rivela artista di grande interesse. Fatta la tara dei piccoli problemi di intonazione e sostegno, rimane un cantante che si danna l’anima per dare senso a quanto va cantando, che fraseggia, sfuma e soprattutto sa tenere il palco. La voce è brillante anche se non grandissima e sale senza sforzo ad un registro acuto che pare facilissimo. Da risentire.
Piace senza riserve Marcello Rosiello, baritono che trova nell’ampiezza della vocalità l’arma più efficace per tratteggiare un Marcello impetuoso ed estroverso, dalla vitalità contagiosa. La Musetta di Marie Fajtova si lascia prendere talvolta la mano nel registro acuto, che esce più forzato di quanto sarebbe necessario, ma è per il resto un’eccellente Musetta.
Molto bravo Vincenzo Nizzardo, centratissimo Schaunard. Rimandato a settembre Ivan Šarić, Colline opaco. Dario Giorgelè trova la giusta misura per risolvere Benoît e Alcindoro senza scadere nel grottesco mentre Motoharu Takei lascia sbalorditi per la proiezione del suono nelle poche parole riservate a Parpignol. Hektor Leka, Giuliano Pelizon e Dax Velenich completano onorevolmente la compagnia.
Più problematica la buca. Complice probabilmente un insufficiente numero di prove, Renato Balsadonna sembra navigare a vista: il direttore fatica a controllare il volume orchestrale e a concertare con precisione, sicché spesso si ha l’impressione che palco e musica seguano strade indipendenti. La scelta dei tempi, tendenzialmente lenti, non aiuta la scorrevolezza dell’azione.
Ben figura, e non sorprende, il Coro del Verdi preparato da Fulvio Fogliazza. Bravi I Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro.
Buon successo di pubblico.
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