Il teatro musicale impone delle regole formali vincolanti, in questo si differenzia da altre esperienze creative che lasciano all'artista una totale, o quasi, libertà di manovra. Nell'opera c'è innanzitutto un testo che va rispettato, sia nel libretto sia nella musica, ci sono necessità inderogabili del canto e, non ultimo, c'è uno strettissimo disegno di tempi e ritmi entro i quali l'azione prende luogo; la fantasia e le idee di un regista devono necessariamente scendere a compromessi con tutto ciò, anzi, dovrebbero uscire valorizzate dal confronto.
La Madama Butterfly in scena alla Fenice di Venezia, già recensita su queste pagine, esemplifica alla perfezione quanto insidioso possa essere questo compito: Alex Rigolà ha una lunga esperienza nel teatro di prosa mentre nell'opera è poco più che un debuttante; similmente Mariko Mori, artista e scultrice di fama internazionale che firma scene e costumi, affronta il melodramma come fosse un'installazione per la Biennale. Ne esce uno spettacolo laccatissimo ed elegante ma teatralmente zoppicante: la recitazione, oltre ad essere stereotipata al pari delle Butterfly più oleografiche, risulta prosaica e completamente avulsa dalla musica. Il contesto in cui viene calata la vicenda, una sorta di non-luogo asettico e impersonale dominato dal bianco, nulla aggiunge in termini di approfondimento alle centinaia di allestimenti tradizionali che i teatri propongono da oltre un secolo. Rimane, oltre alla gradevolezza estetica del tutto, qualche idea apprezzabile: il progressivo processo di perdita di cui è vittima Cio-Cio-San, con il distacco dalla società e dagli affetti è reso con efficacia così come convince il lavoro sul piccolo Dolore nel secondo atto, portato a cercare in Sharpless quella figura paterna che gli è mancata.
La ripresa di questo spettacolo, nato due anni fa, proponeva più d'una ragione di interesse in un cast composto da giovanissimi e promettenti cantanti, guidati da un direttore tra i più interessanti della sua generazione. Sappiamo quanto sia difficile credere ai quindici anni di Butterfly, dal momento che la scrittura della parte richiede una vocalità ampia e svettante, dote che raramente appartiene ad una cantante dall'aspetto adolescenziale; Svetlana Kasyan è una sorprendente eccezione alla regola, unendo alla freschezza della figura, mezzi vocali fuori dal comune. La Cio-Cio-San del soprano - assolutamente credibile innanzitutto nella fisicità, minuta e giovanile - è quanto di più infantile e capriccioso si possa immaginare; la Kasyan si tiene alla larga da introspezioni freudiane o rotture psicotiche, la sua Butterfly è una bambina, coinvolta in un meccanismo incontrollabile, che capisce troppo tardi di aver perso tutto. La vocalità è senz'altro impressionante per volume del registro acuto e bellezza del timbro, tuttavia risulta, ad oggi, ancora perfettibile sotto il profilo tecnico: il controllo del fiato è tutt'altro che impeccabile, sia nel legato, sia nell'emissione dei suoni che tendono spesso a perdere l'appoggio, soprattutto nei pianissimi; l'intonazione non è sempre a fuoco.
Per il Pinkerton di Vincenzo Costanzo, giovane tenore di belle speranze, le considerazioni sono di poco diverse: la voce è naturalmente dotatissima per volume e facilità di emissione ma difetta ancora di squillo e proiezione, l'interprete è naif ma appassionato ed impetuoso. Risulta assai credibile questo Pinkerton immaturo che, in preda alle passioni al pari della geisha, non riesce a ponderare le conseguenze delle proprie scelte.
Ottima la prova di Marcello Rosiello, Sharpless dalla voce ampia e timbrata, capace di risolvere con sensibilità e varietà d'accenti ed inflessioni l'insidioso canto di conversazione richiesto dalla parte.
Commovente, intensa e molto ben cantata la Suzuki di Manuela Custer.
Tra le moltissime parti minori si impone per precisione William Corrò (Yamadori) mentre il Goro di Nicola Pamio, vocalmente impeccabile, si concede alcune libertà musicali poco condivisibili. All'altezza della situazione tutti gli altri.
La direzione di Jader Bignamini è ricchissima di idee che, quando trovano realizzazione, aprono prospettive inedite sulla musica pucciniana: certi dettagli ritmici, enfatizzati senza alcuna pedanteria, o la secchezza espressionista degli impasti in taluni passaggi, evidenziano la modernità della partitura, che nella lettura di Bignamini pare quasi presagire alcune conquiste cui giungerà Stravinskij nei suoi balletti. Purtroppo i momenti più lirici e distesi risultano deboli sia nell'esecuzione musicale (non c'è mai il giusto sostegno al palcoscenico in termini di amalgama tra strumenti e voci), sia nella tenuta della narrazione: la lentezza esasperata del finale primo o di ampi tratti del secondo atto (compresa l'aria di Butterly Un bel dì vedremo), oltre a mettere alle corde i cantanti, annacqua la tenuta drammatica della vicenda.
L'impressione generale è che la compagnia necessiti ancora di qualche recita di rodaggio per rifinire i dettagli e trovare il giusto affiatamento. Alterna la prova del coro, sicuramente sfavorito dalla sciagurata idea registica di disporre i cantanti in platea durante il finale secondo, così da comprometterne irrimediabilmente l'esito.
Il pubblico, generoso ed entusiasta, ha salutato trionfalmente la protagonista e i principali interpreti della recita.
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