10 maggio 2015

La Bohème di Bignamini alla Fenice

In un’ottica programmatica ispirata ai teatri di repertorio d’oltralpe, la Fenice di Venezia ha ormai scelto di inserire alcuni spettacoli in cartellone con cadenza praticamente annuale, puntando, con lungimiranza e intelligenza, ad un pubblico turistico che finora si è sempre dimostrato molto ricettivo. L’idea è quella di investire, parallelamente alla stagione di produzione, su opere di richiamo declinate secondo diverse sfumature: si va dal Carsen dell’ormai storica Traviata ai più innocui allestimenti di Morassi, passando per il geniale Mozart di Michieletto fino appunto alla Bohème di Francesco Micheli, spettacolo per cui ci sentiamo di ribadire le impressioni ricavate nel corso delle scorse stagioni: 

“Lo spettacolo è fresco, giovanile, coinvolgente nella sua bozzettistica semplicità. Non una Bohème sconvolgente o che si proponga chissà quali orizzonti interpretativi ma, cosa forse ancor più difficile, originale senza sconvolgere drammaturgia ed ambientazione. Le scene firmate da Edoardo Sanchi propongono una Parigi da vendere ai turisti, immaginata piuttosto che veritiera, uno sfondo fumettistico che accompagna e racconta da vicino le sfortunate storie dei Bohémiens pucciniani. La vicenda è incastonata in una cornice di simboli che rimandano alla Ville Lumière, dalla Tour Eiffel alle Folies Bergère, il tutto a costellare i luoghi che prescrive il libretto e che si è abituati ad associare all’opera. Insomma c è tutto quello che ci si aspetterebbe di trovare in una Bohème, dalla soffitta alla neve del terzo atto, ma non solo. Anche il secondo quadro è magnificamente risolto senza scadere nei zeffirellismi in sedicesimo di facile effetto che si vedono un po’ dappertutto. La Parigi da cartolina, stereotipata, che viene proposta tende necessariamente a mitigare la pulsione naturalista dell’opera, spostandola su un livello favolistico o quantomeno romanzesco. La regia di Micheli, in perfetta sintonia con l’ambientazione, è scorrevole, spontanea ed immediata, coinvolgente e simpatica pur concedendosi alcuni siparietti di forzata comicità di cui non si sarebbe sentita la mancanza.” 



Giunto alla sua quarta ripresa in pochi anni, lo spettacolo di Micheli, dopo aver goduto della lettura sinfonica di Valchua e di quella più tradizionale di Callegari, prima di passare sotto la bacchetta alterna di Matheuz, trovava in Jader Bignamini un interprete notevole. Bignamini dimostrava di privilegiare il teatro al calligrafismo sinfonico, restituendo una Boheme asciutta ma intensa, in cui la violenza quasi toscaniniana di alcuni passaggi (i momenti di “convivialità” dei quattro amici in soffitta e il finale secondo) cedeva il passo ad abbandoni lirici nel racconto dell’intimità dei protagonisti. L’orchestra suonava con buona precisione, una certa genericità timbrica – in un’ottica che tendeva a posporre la cura dell’orchestrazione al senso narrativo della musica – giungendo a risultati di grande sinergia con il palcoscenico. 

In un cast omogeneo e convincente Carmen Giannattasio era una Mimì sicura nel canto e sulla scena. Il soprano, con l’evidente complicità del podio, costruiva la propria interpretazione lavorando sulla dinamica piuttosto che sul fraseggio; in particolar modo il finale d’opera, giocato tra pianissimi e sussurri, risultava particolarmente efficace. Il Rodolfo di Matteo Lippi, nonostante alcune aperture in acuto, convinceva per spontaneità e freschezza. 

Ottima la prova del baritono Julian Kim, cantante dallo strumento privilegiato per volume e colore cui si potrebbe chiedere soltanto un maggiore approfondimento del fraseggio. Francesca Dotto era una Musetta corretta, ben cantata e disinvolta sulla scena. 

Eccellente il Colline di Andrea Mastroni, basso di bellissima voce ed ottima tecnica, capace di cesellare l’aria del quarto quadro con una mezzavoce timbratissima e di grande morbezza. Armando Gabba confermava le buone impressioni fornite nelle scorse stagioni cantando senza sbavature la parte di Schaunard. All’altezza della situazione tutte le parti minori e il sempre impeccabile coro del teatro La Fenice. 

Paolo Locatelli
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