Nell’ambito del progetto Mozart torna alla Fenice la trilogia dapontiana con la regia di Damiano Michieletto, già proposta nelle scorse stagioni. Diciamo subito che, pur trattandosi di tre spettacoli di altissimo livello, è giusto fare alcuni distinguo: se Don Giovanni e Così Fan Tutte hanno convinto ed entusiasmato, meno a fuoco è parso, anche alla riprova, Le Nozze di Figaro che già ci aveva lasciato alcune perplessità all’esordio.
Le nozze di Figaro è l’opera perfetta. Lo è nella sublime leggerezza della musica di Mozart come nel libretto in cui Da Ponte sa mascherare la malinconia e le inquietudini d’ironia. Non una semplice commedia dunque questo racconto della folle giornata in cui dovrebbero celebrarsi le nozze tra il protagonista e la cameriera Susanna ma un affresco di vita, un’analisi dei rapporti interpersonali nonché degli affetti e delle meschinità che li regolano.
Dopo le entusiastiche risposte di pubblico e critica al precedente Don Giovanni le aspettative per questo nuovo allestimento erano altissime e , benché il regista Damiano Michieletto abbia allestito un ottimo spettacolo è innegabile che alla fine rimanga nello spettatore un fondo di delusione nel trovarsi di fronte ad un fratello minore del precedente lavoro. Le perplessità non possono certo riguardare la tecnica registica che Michieletto possiede e padroneggia con classe quanto piuttosto la sensazione che tutto si fermi alla superficie. Certo si parla di una superficie tirata a lucido, la costruzione dello spettacolo è formalmente impeccabile, la trama dipanata con sapienza e, al solito, curatissima la gestione degli artisti in scena. Si avverte però la mancanza di una lettura che scavi più in profondità tra le pieghe di questo capolavoro. Non giova poi allo spettacolo la somiglianza delle scene con il precedente Don Giovanni di cui queste Nozze sono, più che una prosecuzione, un calco. Benché la scelta possa sottintendere l’intenzione di mettere in relazione ancor più stretta le due opere, il risultato non solo non convince ma, peggio, finisce per limitare l’effetto dello spettacolo in chiunque abbia già visto il precedente.
Va poi aggiunto che le lievi ma significative modifiche apportate dal regista rispetto all’esordio dello spettacolo finivano con l’indebolire ulteriormente la tensione, impoverendo il progetto iniziale soprattutto per quanto riguarda i personaggi di Cherubino e della Contessa, ridimensionati e resi più convenzionali di quanto ricordassimo.
Figaro era il bravo Vito Priante, strumento di bel timbro, ottima musicalità e buon gusto. Piaceva Rosa Feola, Susanna dalla voce piccola ma estremamente gradevole, curatissima nel fraseggio. Marina Comparato era un eccellente Cherubino; la lunga consuetudine del mezzosoprano con la parte si avvertiva in particolar modo nelle due arie, ricche di suggestioni e cesellate fin nel minimo dettaglio. La Contessa di Marita Sølberg convinceva grazie alla bellezza del timbro e alla morbidezza d’emissione pur evidenziando alcune imperfezioni di intonazione, soprattutto nella cavatina di ingresso. Corretto ma ordinario il Conte di Simone Alberghini. Alterne le parti minori.
Sul podio Antonello Manacorda si confermava mozartiano di razza. Si potranno discutere i tempi sostenuti o le sonorità asciutte, non la capacità di assecondare la narrazione, la cura per il dettaglio musicale e ritmico o il perfetto sostegno al palcoscenico.
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